di Giacomo Conti

L’ordine di demolizione, nell’ambito del contenzioso urbanistico-edilizio, è la più grave sanzione amministrativa prevista dall’ordinamento e, infatti, colpisce solo gli abusi edilizi più gravi.
Possono essere colpiti da ordine di demolizione gli interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
L’art. 31 del testo unico edilizia, al comma 2, stabilisce che Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto al patrimonio comunale.
In base al successivo comma 3, se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune, ma l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
Per giurisprudenza costante, l’ordine di demolizione ha natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio e si estende non solo nei confronti di chi ha realizzato originariamente l’abuso, ma anche degli eredi del soggetto che ha realizzato il manufatto abusivo.
Nel caso in cui il manufatto abusivo venga ereditato, sono pertanto gli eredi a dovere provvedere a ripristinare la legalità dello stato dei luoghi.
Secondo T.A.R., Torino, sez. II, 19/04/2023, n. 337: “La demolizione di un manufatto abusivo costituisce una sanzione reale che colpisce il bene abusivo in quanto tale; perciò, è irrogabile non solo all’autore dell’abuso, ma anche a chi, come il proprietario del bene, pur non avendo commesso la violazione, si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato”.
Secondo Cassazione penale , sez. III , 21/02/2023, n. 16141: “L’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell’avente causa del condannato”.
Anche la Cassazione penale, sez. III, 24/01/2023, n. 17399, in tema di reati edilizi, ha ritenuto che: “L’ordine di demolizione delle opere abusive, in caso di morte del condannato, deve essere notificato all’erede o al suo avente causa”. Secondo la Suprema Corte, è necessario e sufficiente che l’erede sia titolare diritto reale o personale di godimento sul bene oggetto dell’abuso edilizio, posto che soltanto colui che si trova in un rapporto di fatto o di diritto rispetto al bene può provvedere all’adempimento dell’obbligo di facere in cui si sostanzia l’ordine di demolizione“.
Nonostante l’ordine di demolizione comporti, come sanzione principale la rimozione del manufatto abusivo è vero che, al ricorrere di determinati presupposti, è possibile ripristinare la legalità attraverso un’istanza di condono piuttosto che attraverso un accertamento di conformità.
Secondo l’art. 36 del testo unico edilizia, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, quale può essere un erede, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. Ad esempio, nel caso in cui sia sopravvenuto un condono edilizio oppure nel caso in cui la natura dell’abuso sia solo formale, ossia laddove il manufatto è sprovvisto del titolo edilizio e questo potrebbe essere ottenuto attraverso l’ottenimento di un rilascio di un permesso in sanatoria.
Sul punto, merita menzione Consiglio di Stato , sez. IV , 26/04/2023 , n. 4200 secondo cui: “La realizzazione di un intervento edilizio, prima del rilascio del titolo prescritto dalla legge, ne comporta irrimediabilmente l’abusività (quantomeno quella c.d. formale), alla quale può ovviarsi con il diverso procedimento di accertamento di compatibilità urbanistica, di cui all’art. 36, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, sempreché ne ricorrano i presupposti (della c.d. doppia conformità sostanziale); pertanto, perché si possa produrre la sospensione dell’effetto della ordinanza di demolizione, è necessario presentare una formale istanza di condono o di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001”.
Pertanto, in certi contesti, è possibile ripristinare la legalità anche senza dovere ottemperare all’ordine di demolizione.

di Giacomo Conti

 

La protezione dei dati personali e delle informazioni riservate aziendali sono temi che, molto spesso, si sovrappongono e completano a vicenda: frequentemente, le misure per limitare l’accesso ai dati dei clienti non solo proteggono la privacy dei clienti da soggetti non autorizzati, ma tutelano anche informazioni che l’organizzazione ha interesse a mantenere segrete.

Pertanto; l’impostare sistemi di protezione delle informazioni aziendali e l’adozione di misure per revocare i privilegi di accesso alle informazioni a un ex dipendente una volta cessato dall’incarico non solo proteggono i dati dei propri clienti, ma anche il patrimonio informativo aziendale. Trattasi di misure di organizzative che, per quanto basilari qualunque impresa dovrebbe adottare anche a tutela dei propri interessi.

Infatti, un’organizzazione che non ha implementato policy di protezione delle informazioni e che non è in grado di dimostrarlo in corso di causa di averle applicate, verosimilmente, arriverà a soccombere in giudizio. Questa è la posizione che si sta affermando in giurisprudenza che sta tracciando dei principi processuali in tema di onere della prova di un principio sostanziale relativo all’organizzazione aziendale.

Un precedente importante è rappresentato dall’ordinanza in data 31 gennaio 2022 nell’ambito del procedimento cautelare 8293/2021 avente ad oggetto la legittimità di un accesso e conseguente scarico di una banca dati da parte di una ex dipendente nell’ambito di una compagnia di intermediazione assicurativa. Nella narrativa del ricorso, i suddetti dati sarebbero stati utilizzati al fine di sviare la clientela verso un concorrente del ricorrente.

La ex dipendente, come emergeva dai fatti di causa, aveva scaricato l’intero contenuto della sua casella e-mail, che conteneva tutte le comunicazioni inerenti ai clienti a lei affidati a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. Nello specifico, l’accesso e download riguardavano la banca dati di clienti dell’intermediario assicurativo e il portafoglio di clienti gestito dalla ex dipendente.

Nonostante non fosse oggetto di discussione l’avvenuto download dei dati, come rilevava il Tribunale di Bologna, l’accesso al sistema le era ancora consentito in quanto la società ricorrente aveva chiesto all’ex dipendente di continuare a gestire il portafoglio clienti nelle more delle trattative dirette a cercare l’instaurazione di un nuovo rapporto di collaborazione.

Nel caso di specie, la ex dipendente accedeva liberamente al contenuto della casella di posta aziendale con le proprie credenziali di accesso. Questa circostanza fattuale arrivava a dimostrare, a livello processuale, la mancata adozione di misure ragionevolmente adeguate a mantenere le informazioni segrete.

Per l’effetto della mancata adozione delle misure di protezione del know how adeguate, la ricorrente non riusciva a dare prova della natura segreta delle informazioni sottratte con conseguente impossibilità di applicare gli articoli 98 e 99 del codice della proprietà intellettuale che tutelano il cosiddetto segreto industriale.

L’adozione di adeguate misure di protezione avrebbe dimostrato che i dati scaricati dalla ricorrente ricomprendevano informazioni commerciali segrete e dotate di valore economico in quanto segrete in quanto sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Pertanto, il Tribunale concludeva che non vi fossero elementi che consentissero di accertare una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. e respingeva il ricorso.

La pronuncia in esame mette in evidenza importanti riflessi processuali in materia di accountabilty, sotto il profilo della capacità di dimostrare in sede giudiziale di avere adottato e documentato le procedure e l’attuazione delle stesse.

Per maggiori approfondimenti v. il testo del provvedimento: ordinanzaBLIND

di Marino Bianco

 

Le Criptovalute esistono dal 2008, anno in cui Satoshi Nakamoto lanciò il “manifesto” (whitepaper) del Bitcoin, il primo di tutte le Criptovalute. La caratteristica principale delle Criptovalute è la decentrazione, vale a dire non hanno altro governo che quello degli algoritmi di mining e della Blockchain. Sono quindi distaccate da ogni forma d’intervento della politica o di una qualche autorità centrale che rendono impossibile ogni fenomeno inflattivo.

Gli utilizzi delle criptovalute possono esseri vari, ma essenzialmente legati al valore, infatti, se i Bitcoin nei primi anni potevano essere utilizzati per acquistare beni e servizi come la moneta avente valore corrente , man mano il valore è cresciuto ha cominciato a farsi spazio l’uso di questo come strumento per speculazioni finanzarie e riserva di valore.

Ma questa crescita enorme ha avuto un effetto collaterale importante: le criptovalute sono estremamente volatili e possono perdere parte, anche importante, del loro valore nell’arco di brevissimo tempo.

Proprio questa volatilità, insieme alla decentralizzazione e al fatto che difficilmente questa possa raggiungere, almeno a breve, accettazione presso il pubblico rendono impossibile identificare le criptovalute come moneta avente valore corrente (ovvero fiat).

Con la conseguenza che, attualmente, v’è un’identificazione nell’alveo dei beni mobili immateriali alla stregua di strumenti finanziari.

Ed è proprio tale identificazione quella seguita anche dalla giurisprudenza, infatti il TAR del Lazio con la sent. 1077 del 20,01,2020 ha indicato che le criptovalute vadano indicate nel riquadro “RW” al momento della compilazione del 730  riquadro  appunto riservato agli investimenti finanziari. Ma ci sono anche pronunce da organi non giurisdizionali come ad esempio la CONSOB che hanno sottoposto le criptovalute alle regole esistenti per il mercato finanziario[1].

Questo è conseguenza del numero sempre maggiore di persone che investono e, in virtù di ciò, saranno sempre di più le controversie legali nelle quali il Bitcoin e le altre Criptovalute avranno un ruolo, anche in fase esecutiva. A riprova di ciò v’è un caso riguardante la conferibilità delle cripto nel patrimonio sociale.

Di tal caso s’è  occupato il Tribunale di Brescia, con il decreto di rigetto  7556/2018 del 18/07/2018 ad oggetto il conferimento di criptovalute in capitale sociale.

Leggendo il decreto si scoprono i motivi di tale rigetto:
In primis, il Tribunale rileva che oggetto di conferimento è  una criptovaluta presente in un unico mercato che fra l’altro è direttamente ricollegabile agli ideatori della stessa.

Altro motivo sarebbe nella difficoltà pratica del pignoramento, dal momento il livello di sicurezza tecnologia è tale da rendere impossibile l’esecuzione senza la cooperazione dell’esecutato.

Quanto decretato dal Tribunale di Brescia però ha  rilevanza limitabile esclusivamente al caso trattato, dal momento che la maggioranza degli investimenti avveiene su wallets i quali possono agire come veri e propri custodi ( cd. Custodial wallets) e riguarda delle criptovalute con un bacino di utilizzo notevolmente più esteso.

Dal punto di vista procedurare è importante citare l’art 514 cpc riguardante  le “cose mobili assolutamente impignorabili” e in questo le criptovalute non sono rintracciabili né direttamente, né indirettamente. Inoltre l’art 514 non può essere interpretato analogicamente e gli elementi in essi contenuto sono un numerus clausus, quindi non allargabile se non dal legislatore.

L’articolo 474 cpc indica come requisiti del diritto oggetto “liquidità, certezza ed esigibilità” dove per certezza ci si riferisce all’esistenza del diritto e alla sua facile identificazione, per esigibilità s’intende l’essere scevro da ogni condizione o impedimento. Per quanto riguarda ambedue gli attributi, essi possono essere presenti nel caso il diritto oggetto del titolo siano delle criptovalute dal momento che queste possono essere, nella maggior parte dei casi, liberamente convertite in euro in ogni momento.

Il requisito della liquidità, invece, afferisce alle esecuzioni con oggetto somme di danaro e richiede che queste siano individuabili “immediatamente o tramite semplice calcoli aritmetici” ed è qui che per le criptovalute possono sorgere dei problemi.

Questi possono derivare dal fatto che le criptovalute, al momento, non sono danaro e non possono esservi assimilate poiché, ai sensi dell’articolo 1277 codice civile, le obbligazioni in denaro vanno estinte mediante la moneta avente valore corrente.

Per quanto si possa escludere che la “liquidità” sussista per le criptovalute, non c’è risultato al di fuori dell’esclusione di queste dal novero delle “obbligazioni avente oggetto una somma di denaro denaro”. Per tutto il resto invece, sussistono.

Nel caso del conferimento, è il 2464 cc ad indicare che “Possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica”, dictum che dà chiaramente la possibilità di conferire le criptovalute in quanto hanno valore economico e, come già detto, sono state messe, giudizialmente, sullo stesso piano degli strumenti dei mercati finanziari

Per concludere si può dire che a livello teorico, non c’è nulla che impedisca ad un creditore di agire in esecuzione sulle criptovalute così come di conferirle nel capitale sociale. Discorso diverso riguarda la praticità  di ambedue le cose, sempre a causa della volatilità. C’è il rischio che nel caso dell’esecuzione vi sia una perdita di valore tale da far perdere l’utilità dell’esecuzione stessa all’attore che ben farebbe ad azionare un sequestro conservativo.

Nel caso del conferimento questa mancanza di stabilità del valore può avere effetti nefasti sulla stabilità della società stessa.

[1]    https://www.consob.it/documents/10194/0/Articolo+su+rischi+criptovalute/10402b10-bc3b-4500-a0d4-81cec9a2db23

di Guglielmo Marchelli

La graduale introduzione del processo civile telematico, fino alla sua definitiva obbligatorietà a decorrere dal 31/12/2014 per tutti i Tribunali e 30/06/2015 per le Corti d’Appello, ha imposto agli operatori del settore l’adozione di specifici programmi per elaboratore, onde effettuare il deposito e l’estrazione, presso gli uffici competenti, degli atti giudiziari in formato elettronico.
Il sistema prevede la creazione di una cd. “busta telematica”, ovvero, di un archivio (*.enc) contenente gli atti (firmati digitalmente dal professionista) che viene crittografato con la chiave pubblica dell’ufficio giudiziario di destinazione ed inviato a mezzo PEC dall’indirizzo mittente del professionista abilitato.
É altresì previsto un sistema di consultazione dei fascicoli di causa da parte del professionista incaricato, ma anche dal cittadino o del soggetto “parte” del giudizio civile, attraverso appositi “Punti di Accesso” che prevedono un sistema di autenticazione basato su certificato rilasciato da appositi certificatori accreditati, normalmente inserito nel dispositivo di firma elettronica.
Svariate critiche si potrebbero muovere al sistema di deposito telematico anzi descritto.
In effetti, per fare un paragone con il passato, sarebbe come dire che l’avvocato (o il CTU), per depositare i propri atti, dovesse ogni volta spedire al Tribunale un plico raccomandato a/r, in luogo di recarsi personalmente in Cancelleria.
È lecito domandarsi se fosse stato più opportuno implementare il deposito degli atti mediante autenticazione sul Punto di Accesso e caricamento diretto dei file (upload) sul server ministeriale, in combinazione con strumenti tecnici di tracciatura (log), tali da consentire la riferibilità del deposito al professionista titolare del dispositivo di autenticazione e l’apposizione della data certa alla busta (es. mediante marcatura temporale della busta).
Si sarebbe potuto così evitare l’inutile consumo di risorse che oggi avviene con lo scambio di messaggi PEC di svariate decine di Megabyte fra professionista e Cancelleria (allo stato il PCT prevede ben 4 ricevute PEC, fra cui la prima che restituisce al mittente l’intero archivio .enc).
Dopo l’introduzione del processo telematico si è potuto assistere al proliferare di programmi per elaboratore più o meno avanzati, sviluppati quasi esclusivamente per il sistemi operativi MS Windows e rilasciati con licenza “closed source”.
Tali applicativi, oltre a non essere multi-piattaforma, vengono distribuiti ad un prezzo molto elevato rispetto alle funzionalità effettivamente offerte.
Molte software house produttrici hanno adottato una strategia commerciale consistente nel “fidelizzare” numerosi utenti mediante la stipula di convenzioni pluriennali con gli ordini professionali, concedendo in un primo momento il proprio software ad un importo “scontato”, per poi alzare notevolmente i prezzi e/o recedere dalla convenzione, onde imporre il proprio prezzo all’utente ormai abituato ad utilizzare quel determinato “prodotto”.
La conservazione e la gestione dei dati mediante questi programmi avviene, molto spesso, mediante formati proprietari sviluppati dalla stessa software house, con evidente rischio per la portabilità dei dati stessi (anche personali), qualora il professionista volesse migrare verso altri applicativi (cd. “lock-in”).
Certamente, non è questa la sede per sindacare la liceità o l’eticità di tali strategie commerciali (Mi limito ad osservare che l’Antitrust nel 2016 ha aperto un’istruttoria tesa ad “accertare eventuali condotte abusive che avrebbero riguardato l’intera filiera dei sistemi informatici per lo svolgimento di servizi che attengono alla funzione giudiziaria”.).
In verità, parliamo di programmi piuttosto semplici che uniscono gli schemi ministeriali per creazione ed invio telematico delle cd. “buste” a mezzo pec, con il servizio gratuito di consultazione dei fascicoli (il tutto eventualmente condito con un gestionale un po’ datato per l’amministrazione delle pratiche dello studio).
Quello che, tuttavia, è bene chiarire, è che tutti i programmi per elaboratore atti ad effettuare il deposito telematico e/o la consultazione dei fascicoli PCT, non erogano, né potrebbero erogare funzionalità e/o servizi diversi e più avanzati rispetto a quelli messi a disposizione ed implementati sul server ministeriale.
In verità, tutte le operazioni essenziali di deposito e di consultazione e di estrazione atti, possono essere effettuate gratuitamente, con la combinazione di applicativi liberamente reperibili sul web.
La consultazione e l’estrazione di “duplicati” e di copie di atti e provvedimenti dai fascicoli telematici possono essere effettuati, previa autenticazione con il proprio certificato, mediante l’accesso diretto al portale del Ministero, pst.giustizia.it (all’interno del quale sono anche elencati numerosi altri punti di accesso privati e pubblici).
Le funzionalità di deposito telematico possono invece essere effettuate mediante l’installazione dell’applicativo SLPCT (www.slpct.it): un software redattore e creatore di buste completamente gratuito, che opera in combinazione con i più diffusi client di posta elettronica.
Detto software -rilasciato con licenza “open source”- viene costantemente aggiornato con l’evolversi degli schemi ministeriali del PCT ed è liberamente installabile su tutti i computer all’interno del proprio studio.
SLPCT è perfettamente multi-piattaforma poiché è sviluppato per i principali S.O. desktop (Ms Windows, Linux, MacOS).
Non possiamo soffermarci sulla differenza fra “freeware” da un lato e “free software” / “open source” dall’altro (nelle loro svariate e sottili distinzioni), tuttavia, vorrei da ultimo sottolineare che le considerazioni che precedono non sono limitate al PCT ma possono essere estese a tutti gli strumenti software dedicati alle professioni legali.