Di Giacomo Conti

Con provvedimento in data 05 marzo 2024, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha comminato a TikTok Information Technologies UK Limited una sanzione amministrativa pecuniaria di 10.000.000 € (diecimilioni di euro) per inadeguata vigilanza sui contenuti pubblicati dagli utenti.

La decisione dell’autorità si pone nel solco di un filone interpretativo che mira a responsabilizzare le piattaforme per la gestione dei contenuti e che individua una vera e propria responsabilità per mancata gestione del rischio laddove i contenuti condivisi all’interno del servizio possano porre dei rischi per i diritti degli utenti. Merita menzione sul punto il precedente caso AGCM contro TripAdvisor dove la piattaforma di recensioni era stata sanzionata per Mezzo Milione di Euro per non avere vigilato sulle false recensioni all’interno della piattaforma la cui presenza avrebbe provocato danni ad albergatori e ristoratori (https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2014/12/alias-7365 ).

Nel caso in esame, l’autorità di vigilanza ha rilevato all’interno della piattaforma TikTok, da un lato, la presenza di contenuti suscettibili di minacciare la sicurezza psico-fisica degli utenti, quali quelli relativi alla challenge c.d. “cicatrice francese” (“french scar”); e, dall’altro, l’inadeguatezza delle azioni realizzate dal social per evitarne la diffusione. In particolare, è stato accertato che questi contenuti pericolosi venivano addirittura proposti reiteratamente agli utenti attraverso ‘sistemi di raccomandazione’ suscettibili di condizionare le scelte dei consumatori, nella specie di quelli vulnerabili.

In particolare, i contenuti vengono proposti sulla base di un sistema di profilazione algoritmica che individua e seleziona contenuti personalizzati in base a una combinazione di fattori volti a cogliere le preferenze e gli interessi del singolo attraverso le interazioni con gli altri utenti dove vengono inseriti like, quali video sono condivisi, commenti inseriti, tempo speso a vedere un vide,;  le caratteristiche del video come didascalie, hashtag, suoni, paese; nonché le informazioni sull’utente come le impostazioni del dispositivo, dell’account o la lingua selezionata. Inoltre, è integrato un sistema di consultazione basato sui feed Seguiti”, dove sono rinvenibili i video pubblicati dagli utenti di cui l’utente è diventato “follower”.

L’AGCM ha, peraltro, messo bene in evidenza come il sistema di ricerca attiva dei contenuti operi solo in via residuale a maggiore evidenza di come gli utenti siano esposti ai contenuti proposti dalla piattaforma. In particolare, le risultanze istruttorie hanno dimostrato che adolescenti vulnerabili sono esposti con una frequenza maggiore a contenuti pregiudizievoli a causa del sistema di raccomandazione di TikTok in ragione della profilazione operata dalla piattaforma.

Inoltre, l’Authority ha messo in luce come l’aumento dell’attività degli utenti sulla piattaforma amplifica la redditività degli spazi pubblicitari perché il maggior utilizzo di TikTok fornisce al sistema di raccomandazione algoritmico più informazioni sulle preferenze degli utenti. Questo a maggiore dimostrazione dell’interesse della piattaforma a proporre contenuti potenzialmente perché di potenziale interesse dell’utente pure se dannosi per la salute fisica e mentale di questi.

Anche in questo caso, come accaduto in precedenza con la sanzione a TripAdvisor (v. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2014/12/alias-7365 ), l’AGCM ha ribadito l’esistenza di un vero e proprio obbligo per la piattaforma di gestire questi contenuti.

Dagli accertamenti, inoltre, è stata dimostrata l’inadeguatezza dei sistemi di moderazione dei contenuti, automatizzati e gestiti dalle risorse umane di TikTok posto che è emerso che la maggior parte dei video rimossi da TikTok riguarda le categorie che le Parti hanno definito “sicurezza dei minori”, “contenuti violenti espliciti”, “nudità e attività illegali”, mentre solo il 5% delle rimozioni ha riguardato “atti e sfide pericolose”. Nonostante l’attività umana di moderazione sia particolarmente rilevante per contenuti la cui inadeguatezza risulta meno immediata, dagli atti risulta che i componenti del “Team di moderatori” sono selezionati secondo requisiti generici come l’“attenzione alle problematiche sociale”, la familiarità con le leggi e normative relative a internet e la capacità di lavorare su turni diversi. Inoltre, è stato documentato che i moderatori vengono formati tramite corsi interni sull’applicazione delle Linee Guida che, per quanto in atti, appaiono incentrati più sui contenuti violenti, illegali, o a contenuto sessuale che non su challenge e atti pericolosi per i minori

Nella propria valutazione, pertanto, l’autorità ha ritenuto che la piattaforma avesse violato gli obblighi di diligente applicazione delle proprie Linee Guida comunicate agli utenti, condizionato indebitamente degli utenti attraverso la riproposizione di contenuti che sfruttano la vulnerabilità di alcuni gruppi di consumatori; predisposto inadeguate misure di controllo e vigilanza adottate da TikTok sui contenuti pubblicati dagli utenti, con particolare riferimento alla tutela dei soggetti minori e vulnerabili e, da ultimo, diffuso contenuti in grado di minacciare la sicurezza psico-fisica di bambini ed adolescenti.

Per queste ragioni è stata, pertanto, emessa una sanzione per pratica commerciale scorretta ai sensi degli articoli 20, comma 2 e 3, 21, comma 2 lettera b), 21, comma 4, 25, comma 1, lettera c) del Codice del consumo in quanto contraria alla diligenza professionale e idonea riconoscendo una vera e propria responsabilità per inadeguata vigilanza sui contenuti pubblicati dagli utenti.

 

 

Per maggiori informazioni si rinvia al testo integrale del provvedimento reperibile in https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2024/3/PS12543-

Di Giacomo Conti

 

Secondo l’art. 13 comma 4 del Decreto Whistleblowing, i trattamenti di dati personali relativi al ricevimento e alla gestione delle segnalazioni sono effettuati dai soggetti di gestori dei canali di segnalazione, che sono da considerarsi, a rigor di norma, titolari del trattamento.

Se così fosse, sarebbero questi soggetti sono tenuti ad adottare le misure di organizzazione e sicurezza appropriate a tutela dei diritti e delle libertà degli interessati, mentre per eventuali violazioni della normativa o per data breach. Il tutto mentre, l’organizzazione che non ha implementato il canale o non ha adottato adeguate misure di sicurezza non dovrebbe rispondere per violazioni o data breach non essendo titolare del trattamento.

A livello sistematico appare evidente come questa norma non sia compatibile con quanto stabilito dal GDPR secondo cui i ruoli nell’ambito delle attività di trattamento di dati personali sono dettati dal principio di finalità del trattamento in ragione del quale il titolare è colui che determina le finalità del trattamento e ne individua la base giuridica.

Pertanto, secondo l’art. 4 numero 7 del GDPR, deve intendersi come titolare del trattamento la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali. Quindi, l’organizzazione che ha predisposto il canale di segnalazione.

Seppure il GDPR stabilisca che quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, la scrittura della norma appare non conforme con i principi generali in materia di protezione dei dati.

È, infatti, evidente come nel caso in cui la gestione dei canali di segnalazione si affidata a un ufficio interno all’ente le persone incaricate della gestione del canale di segnalazione saranno necessariamente autorizzate ai sensi dell’art. 29 GDPR. Peraltro, in ragione del principio di substance over form nella definizione dei ruoli GDPR non dovrebbe rilevare se questi soggetti sono professionisti autonomi o dipendenti dell’ente.

Il fatto che questi soggetti siano persone autorizzate e non titolari di trattamento è messo in evidenza dall’articolo 4 comma 2 del Decreto Whistleblowing secondo cui la gestione del canale di segnalazione è affidata a una persona o a un ufficio interno autonomo dedicato e con personale specificamente formato per la gestione del canale di segnalazione. Questo comma è in evidente contraddizione e distonia con l’art. 13 della norma.

Il Decreto Whistleblowing contempla anche il caso in cui la gestione del canale sia affidata a un soggetto esterno e, come nel caso precedente, il personale preposto alla gestione della segnalazione che in questo caso è del gestore del canale esterno deve essere specificamente formato. In questo caso, l’ente esterno incaricato della gestione del canale potrebbe essere un data processor ai sensi dell’art. 28 GDPR e le persone che trattano i dati personali nell’ambito delle segnalazioni, ugualmente, dovrebbero ritenersi soggetti autorizzati che operano sotto l’autorità non del controller, ma del processor.

Seppure la normativa sia ancora troppo recente per avere prodotto giurisprudenza sul punto, si può attingere, almeno per analogia, ad alcuni precedenti del Garante che si è espresso in tema di ruolo GDPR dell’Organismo di Vigilanza.

In alcune ipotesi, infatti, il gestore del canale di segnalazione potrebbe anche essere un membro dell’organismo di vigilanza e il Garante si è già espresso sul punto con il “Parere sulla qualificazione soggettiva ai fini privacy degli Organismi di Vigilanza previsti dall’art. 6, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231” in data 21 maggio 2020 reperibile in: https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9347842

Il Garante ha ritenuto che l’OdV, nel suo complesso e a prescindere dalla circostanza che i membri che lo compongano siano interni o esterni, debba essere considerato come parte integrante dell’ente. Per l’effetto, i singoli membri dell’OdV debbano considerarsi come soggetti autorizzati ai sensi dell’artt. 4, n. 10, 29, 32 par. 4 Regolamento e dell’art. 2-quaterdecies del Codice della Privacy.

La designazione dei membri dell’OdV, al pari dell’istituzione dell’ufficio preposto alla gestione del canale di segnalazione è, infatti, un atto di organizzazione e non negoziale e, pertanto, appare corretto qualificare questi soggetti come autorizzati (art. 29 GDPR) e non come responsabili di trattamento piuttosto che titolari (art. 28 GDPR).

Ne consegue che, anche nel caso di una violazione di dati derivante nell’ambito della gestione del canale di segnalazione affidata a un soggetto esterno, dovrà rispondere necessariamente l’ente. In quest’ultimo caso, per culpa in eligendo in ragione di una scelta di un soggetto non adeguato.

L’impostazione normativa, all’apparenza, sembra deresponsabilizzare le organizzazioni che, per legge sono tenute ad adottare il sistema di whistleblowing e, pertanto, è opportuno e necessario adottare un’interpretazione correttiva conforme al GDPR che vorrebbe che l’organizzazione fosse titolare di trattamento. Il tutto anche per assicurare un adeguato livello di protezione dei dati personali che il Decreto WhistleBlowing richiede essendo la protezione dei dati personali del segnalante uno dei principi cardini assieme alle misure di protezione della sua persona.

 

di Giacomo Conti

 

La recente sentenza n. 8605/2023 del Tribunale di Milano ha affrontato una controversia avente ad oggetto una controversia relativa alla natura, condominiale oppure esclusiva, di una terrazza e di un locale ripostiglio siti all’ultimo piano di un edificio che costituisce la copertura dello stesso edificio. L’edificio era originariamente di proprietà di un un’unica società immobiliare che, nel corso degli anni, aveva suddiviso l’edificio in due diverse unità che sono state vendute a due soggetti diversi: le parti in causa.

Dove l’attrice, proprietaria di un’unità all’ultimo piano, vantava una proprietà esclusiva dello stesso avendo un titolo e allegava delle schede catastali che indicavano il fondo come proprietà esclusiva; la convenuta, proprietaria dell’altra unità al piano sottostante, ne ribadiva e ne affermava la natura condominiale o, in via di subordine, comune.

La decisione ha affrontato il tema, molto frequente nella prassi e dibattuto in giurisprudenza, relativo al conflitto fra titoli di provenienza confliggenti fra di loro nonché relativo alla presunzione di condominialità del lastrico solare di copertura dell’edificio e, da ultimo, al valore probatorio delle risultanze catastali nonché dei titoli di acquisto.

Ricostruendo il quadro normativo e giurisprudenziale, la sentenza premette che il condominio di edifici sorge “ipso iure et facto“, senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni, nel momento in cui l’originario costruttore di un edificio diviso per piani o porzioni di piano aliena a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata. In quel momento, sorge il condominio per le parti comuni nonché delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni dell’edificio (Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 19829 del 4.10.2004).

Poste queste doverose premesse, il Tribunale ha fatto applicazione dell’art. 1117 c.c. che introduce una presunzione di condominialità dei beni che sono per titolo o per loro natura destinati ad un utilizzo promiscuo da parte dei condomini, e che contiene un’elencazione meramente esemplificativa delle parti comuni e suscettibile, come tale, di essere integrata anche da beni non menzionati nella norma o nel regolamento condominiale.

In primo luogo, il Giudice di prime cure ha ritenuto che la presunzione di proprietà comune di cui all’art. 1117 c.c. non è vinta dall’atto di acquisto dell’attrice in quanto atto successivo al primo atto che ha costituito il condominio.

Pertanto, l’originario unico proprietario Immobiliare M srl ha trasferito alla convenuta la proprietà di alcune unità immobiliari in uno con la proporzionale quota di comproprietà degli enti e spazi comuni del relativo fabbricato ai sensi dell’art. 1117 c.c.. Per l’effetto, il Tribunale ha risolto sulla base del criterio cronologico il conflitto fra atti contrastanti, citando la giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui “Al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 cod. civ. occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare   dall’originario   unico   proprietario   ad   altro   soggetto.   ”(Cass.   sez. 2, Sentenza n.6359 del 03/05/2002).

In secondo luogo, il Giudice di Prime Cure ha deciso che le risultanze delle schede catastali non valgono a superare la presunzione di cui all’art. 1117 c.c., considerato che queste sono semplici elementi indiziari che devono concorrere con altri per costituire una prova (Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 22339 del 06/09/2019).

Il Tribunale ha concluso decisione argomentando nel senso che il lastrico solare, anche se accessibile unicamente da un appartamento in proprietà esclusiva, rientra tra le parti comuni dell’edificio, essendo irrilevanti le contrarie indicazioni catastali che ne indichino l’eventuale natura privata. Il dato catastale, infatti, è preordinato a fini solo fiscali e, in sede di giudizio civile, ha semplice valore indiziario

Ne consegue che, affinché il lastrico solare possa essere valutato di proprietà esclusiva è necessario che risulti l’acquisto della proprietà di un bene immobile a titolo derivativo che deve emergere da un contratto avente forma scritta “ad substantiam“.

 

 

 

In allegato il testo completo della sentenza lastrico solare blind2

BREVE DESCRIZIONE DEL CONVEGNO

Convegno di studi avente ad oggetto: “L’informatica e il diritto dei contratti: Blockchain e Smart Contracts”

Data: Martedì 21 giugno 2023 – ore 14.30 – 18.30

Luogo del convegno: Sala Crociera di Giurisprudenza presso Università degli Studi di Milano in Via Festa del Perdono n. 7

RELATORI E INTERVENTI

15.00 – Introducono e coordinano
Prof. Lucio Camaldo – Presidente Algiusmi – Università degli Studi di Milano
Dott. Stefano Gazzella – Coordinatore Comitato scientifico AssoInfluencer
15.30 – Professione Influencer
Arianna Chieli, Creator Digitale e Content Strategist
16.00 – Il diritto dell’influencer: work in progress?
Prof. Pierluigi Perri, Docente di Informatica giuridica, Università degli Studi di Milano
16.30 – La tutela legale dei contenuti digitali
Prof.ssa Silvia Giudici, Docente di Diritto industriale, Università degli Studi di Milano
17.00 – Profili giuslavoristici dei creator
Avv. Paolo Iervolino, Vicecoordinatore Comitato scientifico AssoInfluencer, Assegnista di ricerca presso l’Università di Palermo
17.30 – Le nuove professioni digitali e non ordinistiche
Avv. Massimo Burghignoli, Past President Algiusmi
18.00 – I rapporti tra Piattaforma e Creator
Avv. Giacomo Conti, Socio Algiusmi e Patreon AssoInfluencer
18.30 – Interventi e dibattito

17.30 – Interventi programmati e dibattito

18.30 – Chiusura dell’incontro

BREVE DESCRIZIONE DELL’INTERVENTO DELL’AVV. GIACOMO CONTI

Il convengo si propone di esaminare i rapporti economici e giuridici nell’ambito dell’ecosistema delle piattaforme digitali.
Dopo avere fatto luce su cosa si intenda per Influencer e messo in luce i profili di professionalità dei creatori di contenuti, si affronteranno i profili relativi alla tutela dei contenuti digitali e giuslavoristici.

Per meglio comprendere la portata di questa nuova figura professionale, verranno esaminati i profili relativi alle nuove professioni digitali e non ordinistiche nonché i rapporti Platform2Business, con particolare riguardo ai rapporti fra creatore di contenuti e piattaforma.

L’intervento dell’avvocato Conti pone dapprima il focus sull’ecosistema di rapporti giuridici che le piattaforme digitali creano per mettere al centro la figura del creatore dei contenuti e dell’influencer, analizzando i rapporti fra queste importanti figure centrali nell’ambito dell’economia del web 2.0.
Successivamente, dopo averne analizzato i tratti distintivi della figura dell’influencer, si analizza come l’influencer sia al centro di una serie complessi di rapporti, ad esempio con la propria fanbase, con i propri sponsor ma anche con la piattaforma online.
Nonostante la centralità di questa figura, l’influencer può essere oggetto di comportamenti di abuso da parte delle grandi piattaforme digitali che, attraverso i propri poteri, possono penalizzarne fortemente l’attività, ad esempio demonitizzandone o rimuovendone i contenuti o bloccandone il canale. Ma anche con comportamenti più subdoli, come collocarlo ingiustificatamente in fondo ai risultati di ricerca facendogli perdere importanti visualizzazioni e, per l’effetto, occasioni di crescita e sviluppo professionale.
Pertanto, vengono analizzati i profili di tutela che l’ordinamento civilistico offre a questa figura partendo dai rimedi in house alla piattaforma per poi approfondire i profili di tutela giudiziale.

Il convegno nasce da una sinergia fra Algiusmi, Associazione dei Laureati di Giurisprudenza dell’Università di Milano, ed AssoInfluencer, associazione rappresentativa dei creatori di contenuti a livello nazionale

Scarica la locandina del convegno cliccando alla seguente risorsa: SAlgiusmi_AssoInfluencer 21-06-2023

Scarica le slide dell’intervento dell’Avv. Giacomo Conti: Rapporti Piattaforma2Influencer Conti

Per maggiori approfondimenti sul tema:

https://www.maggiolieditore.it/lineamenti-di-diritto-delle-piattaforme-digitali-volume-1.html

https://www.maggiolieditore.it/lineamenti-di-diritto-delle-piattaforme-digitali-volume-2.html

di Giacomo Conti

L’ordine di demolizione, nell’ambito del contenzioso urbanistico-edilizio, è la più grave sanzione amministrativa prevista dall’ordinamento e, infatti, colpisce solo gli abusi edilizi più gravi.
Possono essere colpiti da ordine di demolizione gli interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
L’art. 31 del testo unico edilizia, al comma 2, stabilisce che Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto al patrimonio comunale.
In base al successivo comma 3, se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune, ma l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
Per giurisprudenza costante, l’ordine di demolizione ha natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio e si estende non solo nei confronti di chi ha realizzato originariamente l’abuso, ma anche degli eredi del soggetto che ha realizzato il manufatto abusivo.
Nel caso in cui il manufatto abusivo venga ereditato, sono pertanto gli eredi a dovere provvedere a ripristinare la legalità dello stato dei luoghi.
Secondo T.A.R., Torino, sez. II, 19/04/2023, n. 337: “La demolizione di un manufatto abusivo costituisce una sanzione reale che colpisce il bene abusivo in quanto tale; perciò, è irrogabile non solo all’autore dell’abuso, ma anche a chi, come il proprietario del bene, pur non avendo commesso la violazione, si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato”.
Secondo Cassazione penale , sez. III , 21/02/2023, n. 16141: “L’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell’avente causa del condannato”.
Anche la Cassazione penale, sez. III, 24/01/2023, n. 17399, in tema di reati edilizi, ha ritenuto che: “L’ordine di demolizione delle opere abusive, in caso di morte del condannato, deve essere notificato all’erede o al suo avente causa”. Secondo la Suprema Corte, è necessario e sufficiente che l’erede sia titolare diritto reale o personale di godimento sul bene oggetto dell’abuso edilizio, posto che soltanto colui che si trova in un rapporto di fatto o di diritto rispetto al bene può provvedere all’adempimento dell’obbligo di facere in cui si sostanzia l’ordine di demolizione“.
Nonostante l’ordine di demolizione comporti, come sanzione principale la rimozione del manufatto abusivo è vero che, al ricorrere di determinati presupposti, è possibile ripristinare la legalità attraverso un’istanza di condono piuttosto che attraverso un accertamento di conformità.
Secondo l’art. 36 del testo unico edilizia, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, quale può essere un erede, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. Ad esempio, nel caso in cui sia sopravvenuto un condono edilizio oppure nel caso in cui la natura dell’abuso sia solo formale, ossia laddove il manufatto è sprovvisto del titolo edilizio e questo potrebbe essere ottenuto attraverso l’ottenimento di un rilascio di un permesso in sanatoria.
Sul punto, merita menzione Consiglio di Stato , sez. IV , 26/04/2023 , n. 4200 secondo cui: “La realizzazione di un intervento edilizio, prima del rilascio del titolo prescritto dalla legge, ne comporta irrimediabilmente l’abusività (quantomeno quella c.d. formale), alla quale può ovviarsi con il diverso procedimento di accertamento di compatibilità urbanistica, di cui all’art. 36, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, sempreché ne ricorrano i presupposti (della c.d. doppia conformità sostanziale); pertanto, perché si possa produrre la sospensione dell’effetto della ordinanza di demolizione, è necessario presentare una formale istanza di condono o di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001”.
Pertanto, in certi contesti, è possibile ripristinare la legalità anche senza dovere ottemperare all’ordine di demolizione.

La sentenza 322/2023 del Tribunale di Milano rappresenta una pietra miliare in tema di responsabilità degli istituti di credito in materia di responsabilità da trattamento illecito di dati personali e per mancata prevenzione del rischio frodi e perdite finanziarie.

Le materie, infatti, presentano importanti punti di contatto e interferenza in quanto il considerando 75 al GDPR prevede espressamente le perdite finanziarie come uno dei rischi tipici derivanti da una violazione del GDPR.

La direttiva PSD2 impone a banche e istituti di credito stabilisce di adottare specifiche misure di protezione e sicurezza dei correntisti la cui efficace e corretta applicazione deve essere dimostrata secondo quanto richiede il principio di accountability.

La Corte Meneghina, nel caso in esame, ha tracciato un chiaro quadro giuridico in tema di responsabilità derivante da mancata gestione del rischio derivante dal trattamento di dati personali intervenendo chiaramente sui criteri di ripartizione dell’onere della prova.

Il Tribunale, applicando correttamente il principio di accountability, ha stabilito che grava in capo a questi l’onere di dimostrare di avere adottato adeguate misure di protezione della clientela per prevenire il rischio frodi e perdite finanziarie.

La pronuncia in esame dà atto di come la giurisprudenza di legittimità abbia già precedentemente inquadrato la responsabilità dell’istituto di credito nell’ambito della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose. La Corte ha richiamato i precedenti in tema di disposizioni non autorizzate dal cliente su conto corrente mediante accesso abusivo a sistema di internet banking e conseguenti riflessi applicativi nell’ambito della responsabilità per trattamento dei dati personali (cfr. Cassazione, sez. I, 23 maggio 2016 n. 10638).

Secondo l’art. 15 del d.lgs. 196/2003 (Codice Privacy), citato dal Tribunale: “chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile”, l’istituto di credito deve fornire la prova liberatoria dalla propria responsabilità dimostrando di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Da valutarsi secondo le conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati, alle caratteristiche specifiche del trattamento, mediante adozione di misure idonee e preventive per impedire l’accesso o il trattamento non autorizzato ai sensi dell’art. 31 e 36 del d.lgs. 196/2003.

Applicando in combinato disposto l’art 2050 c.c. e l’art. 15 del codice della privacy, l’istituto che svolge un’attività di tipo finanziario o in generale creditizio (…) risponde, quale titolare del trattamento di dati personali, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico del cliente mediante la captazione dei suoi codici di accesso e le conseguenti illegittime disposizioni di bonifico. La responsabilità è esclusa solo se il titolare prova che l’evento dannoso non gli è imputabile perché discendente da trascuratezza, errore (o frode) dell’interessato o da forza maggiore.

La Cassazione ha, quindi, rilevato che ad analoga conclusione si perviene applicando le disposizioni del d.lgs. 11/2010 di attuazione della direttiva 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno. L’art. 10 del d.lgs. 11/2010 pone in capo al prestatore dei servizi di pagamento l’onere di dimostrare, in caso di disconoscimento di una operazione l’onere di dimostrare che l’operazione non ha subito le conseguenze del malfunzionamento delle procedure necessarie per la sua esecuzione ovvero altri inconvenienti connessi al servizio in caso di disposizione di ordini di pagamento in caso di disconoscimento dell’operazione da parte del cliente.

Richiamando la Cassazione, il Tribunale di Milano argomenta che “in punto di ripartizione delle responsabilità derivanti dall’utilizzazione del servizio, il citato D.Lgs., artt. 10 e 11, prevede che, qualora l’utente neghi di aver autorizzato un’operazione di pagamento già effettuata, l’onere di provare la genuinità della transazione ricade essenzialmente sul prestatore del servizio. E nel contempo obbliga quest’ultimo a rifondere con sostanziale immediatezza il correntista in caso di operazione disconosciuta, tranne ove vi sia un motivato sospetto di frode, e salva naturalmente la possibilità per il prestatore di servizi di pagamento di dimostrare anche in un momento successivo che l’operazione di pagamento era stata autorizzata, con consequenziale diritto di chiedere e ottenere, in tal caso, dall’utilizzatore, la restituzione dell’importo rimborsato”.

Per l’effetto, il Tribunale ha ritenuto che tale onere non può venire assolto senza la dimostrazione dell’adozione di specifiche cautele antiphishing “idonee ad evitare l’acquisizione fraudolenta delle chiavi di accesso al sistema da parte di terzi” (così Cass., Sez. I, 29.12.2017 n. 31199).

L’istituto di credito convenuto, nel caso in esame, non ha dimostrato e nemmeno specificamente allegato, secondo il Tribunale, quali cautele avrebbe adottato sia in generale per contrastare il fenomeno del phishing sia nello specifico per evitare il prodursi del danno patito dagli attori, con riguardo a ciascuno dei tre bonifici istantanei eseguiti senza l’autorizzazione degli attori.

Il Tribunale non ha, pertanto, ritenuto assolto l’onere della prova gravante sull’istituto di credito ai sensi dell’art. 1218 c.c. e la conseguente non imputabilità del danno.

Secondo la Corte meneghina, gli istituti di credito devono adottare in relazione a tali operazioni delle cautele e verifiche ulteriori rispetto a quelle predisposte per i bonifici standard, cautele e verifiche che devono essere preliminari all’esecuzione della disposizione, per evitare che la disposizione impartita da terzi non autorizzati provochi effetti irreversibili sul patrimonio del pagatore, cautele che, nel caso di specie la convenuta ha completamente pretermesso, non avendo compiuto alcuna specifica attività in tal senso.

Importantissimo è il principio affermato dalla Corte Territoriale secondo cui l’automatizzazione dei controlli bancari consentita dal progresso scientifico e tecnologico non può comportare una regressione del livello di tutela che deve essere garantito al singolo risparmiatore.

Tale soluzione, imposta dalla disciplina di cui agli artt. 10 ss. del d.lgs. 11/2010, appare del tutto coerente anche dal un punto di vista dell’analisi economica del diritto privato. Pertanto laddove gli istituti di credito omettano di adottare sistemi di controllo per evitare il perpetrarsi di frodi ai danni dei propri clienti dovranno risarcire il danno subito dai propri clienti derivante da questo inadempimento.

Infine, il Tribunale di Milano ha argomentato come l’istituto di credito convenuto non ha nemmeno documentato o altrimenti provato di essersi effettivamente attivata per ottenere dal prestatore del servizio di pagamento del beneficiario dell’operazione, il consenso alla revoca dell’operazione ai sensi dell’art. 17.5 d.lgs. 28/2010, e risulta, anzi, dimostrato dall’attrice che solo la denuncia all’autorità di polizia giudiziaria abbia consentito di recuperare, benché parzialmente, le somme oggetto delle disposizioni disconosciute.

 

In allegato, per maggiori approfondimenti, il testo integrale del provvedimento Sentenza n. 322-2023 BLIND

In allegato il Contratto tipo contitolartà 26 GDPR Baden Wuttermberg  Modello contrattuale ai sensi dell’art. 26 GDPR fra contitolari del trattamento elaborato dall’Autorità di controllo per la protezione dei dati personali del Baden-Württemberg, Germania.

 

Traduzione a cura di Christopher SCHMIDT, CIPP/E CIPM CIPT CBSA con il contributo di Giacomo Conti

 

Il testo in lingua originale è reperibile al seguente link: https://www.baden-wuerttemberg.datenschutz.de/mehr-licht-gemeinsame-verantwortlichkeit-sinnvoll-gestalten/.Non 

 

di Giacomo Conti

Nell’era del Web 2.0 è più che mai attuale la massima secondo la quale: “Se non paghi un prodotto, allora il prodotto sei tu”.

Tutti noi utilizziamo i servizi della società dell’informazione quali, ad esempio, Google, Facebook, Amazon, Netflix. Giganti tecnologici come Apple sviluppano, inoltre, le proprie piattaforme commerciali App Store, iTunes Store e Apple Books.

Mentre alcuni servizi prevedono un sistema di fruizione attraverso il pagamento di un canone, altri servizi operano in maniera più subdola e, dietro un’apparente gratuità, chiedono in realtà come corrispettivo i nostri dati personali che vengono forniti da consumatori, molto spesso, inconsapevoli.

I dati dei consumatori vengono, infatti, monetizzati e ceduti a terzi oppure utilizzati direttamente dal fornitore del servizio attraverso un’attività promozionale per aumentare la vendita dei propri prodotti e/o di quelli di terzi. Questo, a prescindere dal fatto che si paghi o meno per il servizio.

Dopo avere tracciato un quadro generale sulla complessa relazione fra piattaforme online, consumatori (Platform2Consumer) e utenti commerciali (Platoform2Business) e dopo avere il modello economico di queste piattaforme, l’intervento ha lo scopo di mettere in relazione i profili di interferenza fra protezione fra il diritto alla protezione del dato la protezione del consumatore.

Nella seconda parte verranno poi approfondite i procedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nei confronti di Google Ireland Ltd. e di Apple Distribution International Ltd dove entrambe le piattaforme sono state sanzionate per 10 milioni di euro ossia per il massimo edittale secondo la normativa vigente.  L’Antitrust ha, infatti, accertato per ogni società due violazioni del Codice del Consumo, una per carenze informative e un’altra per pratiche aggressive legate all’acquisizione e all’utilizzo dei dati dei consumatori a fini commerciali.

 

 

 

Per il testo integrale dei provvedimenti dell’AGCM:  v. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2021/11/PS11147-PS11150Platform2bus

 

In allegato le slide dell’intervento al convegno e-privacy XXXI – ««Privacy tra attivismo e scienza» – prima giornata – pomeriggio

220929 SLIDE CONTI EPRIVACY

BREVE DESCRIZIONE DEL CONVEGNO

Convegno di studi avente ad oggetto: “L’informatica e il diritto dei contratti: Blockchain e Smart Contracts

Data: Martedì 31 maggio 2022 – ore 14.30 – 18.30

Luogo del convegno: Sala Crociera di Giurisprudenza presso Università degli Studi di Milano in Via Festa del Perdono n. 7

RELATORI E INTERVENTI

14.30 – Registrazione dei partecipanti

15.00 – Saluti introduttivi

Prof. Lucio Camaldo – Presidente Algiusmi – Università degli Studi di Milano

Coordina: Avv. Massimo Burghignoli – Past President Algiusmi

15.30 – Blockchain e smart contracts: caratteristiche e possibili ambiti di applicazione

Prof. Francesco Delfini (Ordinario di diritto civile – Università degli Studi di Milano)

16.00 – Le nuove frontiere dell’informatica giuridica in ambito contrattuale

Prof. Giovanni Ziccardi (Associato di informatica giuridica – Università degli Studi di Milano)

16.30 – La regolamentazione sovranazionale

Dott.ssa Benedetta Cappiello (Ricercatrice di diritto internazionale – Università degli Studi di Milano)

17.00Lo smart contract fra realtà e falsi miti: un contratto né smart contract. Passato, presente e futuro dei contratti intelligenti

Avv. Giacomo Conti (Avvocato del Foro di Milano – Socio Algisumi)

17.30 – Interventi programmati e dibattito

18.30 – Chiusura dell’incontro

BREVE DESCRIZIONE DELL’INTERVENTO DELL’AVV. GIACOMO CONTI

L’intervento al convegno presso l’Università Statale di Milano organizzato dall’Associazione Algiusmi, è strutturato in una parte di introduttiva dove, per brevissimi cenni, si  affronta l’evoluzione storica e sociologica del contratto dalla prima rivoluzione agricola fino all’era dell’informazione. Verrà messo in luce il rapporto fra uomo e tecnologia nella società contemporanea evidenziando come l’evoluzione tecnologica arrivi a mutare e riformare le modalità attraverso le quali la volontà delle parti si esprime e si esegue nell’ambito di un vincolo giuridico.

Nella seconda parte si approfondirà lo stato dell’arte, natura e applicazioni dello smart contract, mettendo in luce come lo stesso non sia né smart contract, bensì un programma informatico finalizzato ad eseguire una volontà “programmata” delle parti.

Successivamente, l’intervento toccherà falsi miti che riguardano gli smart contract, e si analizzeranno i profili tecnici di programmazione del codice-contratto con l’analisi di esempi concreti di linee di codice. Successivamente si affronteranno le fondamenta della tecnologia blockchain alla base degli smart contract moderni, con particolare riguardo dell’attività di criptazione della registrazione su blockchain delle informazioni.

Dopo avere fatto il punto sullo stato normativo della materia, verranno analizzati gli scenari di evoluzione della materia con un’ottica esplorativa/speculativa, mettendo in luce le criticità e i profili di sicurezza della blockchain e il futuro ruolo del giurista alla nell’era dei contratti intelligenti e gli impatti dell’intelligenza artificiale sugli smart contract.

 

Scarica la locandina del convegno cliccando alla seguente risorsa: SMART CONTRAT CONVEGNO STAMPA

 

 

Scarica le slide dell’intervento dell’Avv. Giacomo Conti: Slide Smart contract

di Giacomo Conti

 

La protezione dei dati personali e delle informazioni riservate aziendali sono temi che, molto spesso, si sovrappongono e completano a vicenda: frequentemente, le misure per limitare l’accesso ai dati dei clienti non solo proteggono la privacy dei clienti da soggetti non autorizzati, ma tutelano anche informazioni che l’organizzazione ha interesse a mantenere segrete.

Pertanto; l’impostare sistemi di protezione delle informazioni aziendali e l’adozione di misure per revocare i privilegi di accesso alle informazioni a un ex dipendente una volta cessato dall’incarico non solo proteggono i dati dei propri clienti, ma anche il patrimonio informativo aziendale. Trattasi di misure di organizzative che, per quanto basilari qualunque impresa dovrebbe adottare anche a tutela dei propri interessi.

Infatti, un’organizzazione che non ha implementato policy di protezione delle informazioni e che non è in grado di dimostrarlo in corso di causa di averle applicate, verosimilmente, arriverà a soccombere in giudizio. Questa è la posizione che si sta affermando in giurisprudenza che sta tracciando dei principi processuali in tema di onere della prova di un principio sostanziale relativo all’organizzazione aziendale.

Un precedente importante è rappresentato dall’ordinanza in data 31 gennaio 2022 nell’ambito del procedimento cautelare 8293/2021 avente ad oggetto la legittimità di un accesso e conseguente scarico di una banca dati da parte di una ex dipendente nell’ambito di una compagnia di intermediazione assicurativa. Nella narrativa del ricorso, i suddetti dati sarebbero stati utilizzati al fine di sviare la clientela verso un concorrente del ricorrente.

La ex dipendente, come emergeva dai fatti di causa, aveva scaricato l’intero contenuto della sua casella e-mail, che conteneva tutte le comunicazioni inerenti ai clienti a lei affidati a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. Nello specifico, l’accesso e download riguardavano la banca dati di clienti dell’intermediario assicurativo e il portafoglio di clienti gestito dalla ex dipendente.

Nonostante non fosse oggetto di discussione l’avvenuto download dei dati, come rilevava il Tribunale di Bologna, l’accesso al sistema le era ancora consentito in quanto la società ricorrente aveva chiesto all’ex dipendente di continuare a gestire il portafoglio clienti nelle more delle trattative dirette a cercare l’instaurazione di un nuovo rapporto di collaborazione.

Nel caso di specie, la ex dipendente accedeva liberamente al contenuto della casella di posta aziendale con le proprie credenziali di accesso. Questa circostanza fattuale arrivava a dimostrare, a livello processuale, la mancata adozione di misure ragionevolmente adeguate a mantenere le informazioni segrete.

Per l’effetto della mancata adozione delle misure di protezione del know how adeguate, la ricorrente non riusciva a dare prova della natura segreta delle informazioni sottratte con conseguente impossibilità di applicare gli articoli 98 e 99 del codice della proprietà intellettuale che tutelano il cosiddetto segreto industriale.

L’adozione di adeguate misure di protezione avrebbe dimostrato che i dati scaricati dalla ricorrente ricomprendevano informazioni commerciali segrete e dotate di valore economico in quanto segrete in quanto sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Pertanto, il Tribunale concludeva che non vi fossero elementi che consentissero di accertare una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. e respingeva il ricorso.

La pronuncia in esame mette in evidenza importanti riflessi processuali in materia di accountabilty, sotto il profilo della capacità di dimostrare in sede giudiziale di avere adottato e documentato le procedure e l’attuazione delle stesse.

Per maggiori approfondimenti v. il testo del provvedimento: ordinanzaBLIND