In allegato il Contratto tipo contitolartà 26 GDPR Baden Wuttermberg  Modello contrattuale ai sensi dell’art. 26 GDPR fra contitolari del trattamento elaborato dall’Autorità di controllo per la protezione dei dati personali del Baden-Württemberg, Germania.

 

Traduzione a cura di Christopher SCHMIDT, CIPP/E CIPM CIPT CBSA con il contributo di Giacomo Conti

 

Il testo in lingua originale è reperibile al seguente link: https://www.baden-wuerttemberg.datenschutz.de/mehr-licht-gemeinsame-verantwortlichkeit-sinnvoll-gestalten/.Non 

 

di Jacopo Sabbadini

 

Solo negli ultimi due mesi vi sono stati diversi attacchi alle aziende italiane. SIAE, Regione Lazio, San Carlo, solo per citarne alcuni.

Recente è lo studio di Trend Micro che dimostra come l’Italia sia, ad oggi, il terzo paese più colpito da malware, al mondo, secondo solo a Stati Uniti e Giappone.

 

Per queste ragioni diventa imperativo adoperarsi, non importa quanto grande sia la propria azienda, per avere delle efficaci politiche di disaster recovery e business continuity.

Partiamo da una rapida definzione:

  • Per disaster recovery si intende la possibilità di riprendersi in maniera efficace da un evento atto a distruggere o compromettere gravemente la propria infrastruttura.
  • Per business continuity si intendono quella serie di procedure atte a mantenere attiva la propria infrastruttura durante un evento atto a compromettere l’infrastruttura.

Pietra angolare di ogni procedura di disaster recovery è una corretta politica di backup; questa deve essere pensata per essere automatica e sicura, in modo tale da evitare da un lato la perdita potenziale di dati, dall’altro il backup della minaccia stessa.
Per questa ragione si consiglia sempre di eseguire backup asincroni, in ridondanza su più unità, e solo dei file effettivamente importanti, mai dell’intero sistema; questo proprio per evitare di portarsi dietro, con il backup, anche un potenziale malware, rendendo quindi inutile la procedura stessa.

In aggiunta, i sistemi su cui vengono eseguiti i backup dovrebbero trovarsi su una rete particolare, non raggiungibile dalle altre, se non nel momento della copia dei dati o, in alternativa, completamente scollegati dalla rete.

Per quanto riguarda le procedure di business continuity  invece, il concetto principale è la ridondanza. Vanno previsti più sistemi, ridondanti tra di loro, in modo tale che se uno di questi sistemi dovesse trovarsi sotto attacco, esso possa essere velocemente scollegato e rimpiazzato da un altro; in questo modo si può garantire la continuità dei servizi, anche durante un incidente.

 

Essenziale è anche testare le sopracitate procedure. Un po’ come per le procedure antincendio, se le procedure di backup, disaster recovery e business continuity non vengono mai testate, non importa quanto queste possano essere sicure ed efficaci sulla carta, non può esserci garanzia di reale efficacia e funzionalità.
Una buona prassi è quella di simulare quindi, periodicamente, questi scenari, in modo tale che tutti i membri dell’azienda, grande o piccola che essa sia, siano a conoscenza dei propri ruoli, e possano agire in maniera efficace quando sarà necessario.

con l’Avv. Andrea Lisi, l’Avv. Giacomo Conti e il Dott. Alessandro Bottonelli

Lo ho-BIT ‖ Ep.16

Sospesi tra due realtà: il web non è più “altro” rispetto alla nostra realtà fisica. Al suo interno coesistono nuovi spazi “essenziali” per la società, quali servizi, piattaforme, app e strumenti di lavoro a distanza.

L’evoluzione tecnologica non riguarda più solo i modelli di business: l’enorme potere dei grandi player influenza anche le dinamiche individuali e il quadro dei rapporti sociali.

L’Avv. Andrea Lisi affronterà con l’Avv. Giacomo Conti, specializzato in nuove tecnologie e web reputation, e Alessandro Bottonelli, CEO & Lead Advisor di AxisNet, l’importanza di conoscere i meccanismi e imparare a utilizzare in modo consapevole il web “partecipativo”, anche per evitare di divenire a nostra volta oggetto di “utilizzo” da parte delle stesse piattaforme o di chi le gestisce.

 

Link al contenuto video: 🟣 Quanto apparteniamo alla rete? 🟣 Lo ho-BIT – Andrea Lisi – MRTV – YouTube

di Giacomo Conti

Scegliere un certo social network perché rispetta la nostra privacy è come decidere di fumare una certa marca di sigaretta perché è attenta alla nostra salute o, almeno, più delle concorrenti.

Così come il fumo danneggia la nostra salute, i social network presentano rischi per la nostra vita privata e privacy di cui dobbiamo essere consapevoli.

Prima di scandalizzarci per la violazione della nostra privacy da parte delle piattaforme online, basti pensare come anche le nostre banche, ad eccezione dei sempre più rari pagamenti operati con contanti non tracciabili, siano in grado di conoscere a fondo i nostri acquisti e come possano profilarci, ugualmente, con agevolezza mediante ogni pagamento che effettuiamo con carta di credito o bancomat.

Ultimamente, si presta sempre più attenzione a quello che i social network fanno con i nostri dati personali e con le nostre vite. In questo senso, il GDPR che ha contribuito ad affermare una cultura basata sul dato personale e la recente apprensione sul tema è un effetto benefico nel medio termine del GDPR che ha fatto crescere la consapevolezza dell’utente medio nell’utilizzo dei servizi online.

Prima di comprendere appieno il fenomeno e per evitare di creare inutile e dannoso allarmismo è necessario comprendere come i social network operano e traggono i propri profitti. Del resto, è evidente che le grandi piattaforme come Google, Facebook e Clubhouse non sono onlus che operano con la speranza di lasciarci un mondo migliore.

I social network sono dei media e, come quotidiani e reti televisive, vendono spazi pubblicitari da cui traggono i propri profitti. Tuttavia, a differenza dei media tradizionali, i social network riescono a studiare l’utente e a vendere pubblicità mirate attraverso la cosiddetta profilazione. La pubblicità mirata e profilata ha, quindi, indubbiamente un valore maggiore rispetto alla pubblicità ordinaria in quanto raggiunge un target specifico sulla base di un preventivo studio di dati. Inoltre, maggiore è al crescere della base utenti, maggiore è il prezzo che gli inserzionisti pagano alla piattaforma per acquistare gli spazi di réclame virtuali.

Senza trovare definizioni metafisiche, l’art. 4 GDPR definisce profilazione come qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica. In particolare, questo processo può venire utilizzato per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di una persona fisica.

Grazie a questa attività i social network non vendono generici spazi commerciali, ma una pubblicità mirata ritagliata sulla base della personalità tracciata dell’utente e dei suoi interessi e sulla base dei dati raccolti nell’ambito della fruizione del servizio. Ad esempio, sulla base dei contenuti visionati, dei like e condivisioni operate o, anche, sulla base del tempo dedicato al singolo contenuto o annuncio.

È, quindi, evidente come il fruire di un social network sia incompatibile con ogni concetto più basilare di privacy: quando accediamo al servizio permettiamo alla piattaforma online di conoscere i nostri gusti e la rendiamo partecipe di ogni aspetto della nostra vita che si articola all’interno del social. Quanto è apparentemente gratuito è pagato con la nostra attenzione, il nostro tempo e attenzione per permettere agli inserzionisti (i cosiddetti utenti commerciali) di inviarci pubblicità mirata studiata sulla base dei nostri interessi.

Al pari del fumo, i social network presentano dei rischi evidenti per la nostra vita, in quanto creano di vera e propria dipendenza da connessione e penetrano le nostre vite distraendoci dalla nostra attività e inducendoci, anche modificando il nostro comportamento, verso determinate scelte di acquisto. È sotto gli occhi di tutti come, grazie alle informazioni che raccolgono su di noi, le piattaforme online plasmano il servizio sulle nostre esigenze tenendoci appiccicati allo schermo il più possibile.

Tuttavia, sarebbe ipocrita negare che questi servizi possono apportare significativi benefici a noi tutti, a differenza del fumo.

È importante, però, capire se siamo disposti a pagarne il prezzo, ossia la nostra riservatezza con il rischio di possibile creazione di dipendenza, a fronte di quello che ci offrono.

Per pensare ai vantaggi, basti pensare ai vantaggi di creare una rete professionale attraverso LinkedIn, alla possibilità di rimanere in contatto con amici con cui avremmo poche possibilità di contatto attraverso Facebook o, ancora, di approfondire passioni e interessi attraverso YouTube che offre un patrimonio di conoscenza prima inimmaginabile anche al più dotto enciclopedico.

I social network in sé, pertanto, non sono un fenomeno da demonizzare, ma al più, da comprendere.

Posto che noi veniamo usati dalle grandi Big Tech a cui cediamo i nostri dati e informazioni che riguardano le nostre vite, è innegabile che riceviamo dei vantaggi dai servizi di cui siamo utenti e prodotti al tempo stesso.

Così come noi veniamo usati dalle piattaforme online, noi dobbiamo essere consapevoli e capire come usare il servizio a nostro vantaggio.

Prima di accedere a un servizio social network dobbiamo capire:

  1. in che modo i social network penetrano e interagiscono con le nostre vite e sfera personale,
  2. se siamo disposti a cedere i nostri dati personali a fronte del servizio che ci viene offerto,
  3. perché noi usiamo i social network e quali vantaggi possiamo trarre dal loro utilizzo se e ne sono,
  4. a quali rischi ci espone il loro utilizzo.

Solo dopo avere compreso questi aspetti saremo utenti consapevoli in grado di trarre tutti i vantaggi possibili dal servizio facendoci usare il meno possibile. In altri termini, dobbiamo trasformarci da prodotti inconsapevoli a prodotti consapevoli.

Autore: Giacomo Conti

Editore: Maggioli Editore

Pubblicazione: Ottobre 2020 (I Edizione)

ISBN / EAN 8891643452 / 9788891643452

Collana: Collana Legale

 

Prefazione: Il World Wide Web come la spezia di Dune. L’estensione della conoscenza e l’annullamento dello spazio tra realtà e fantascienza. Gilde spaziali e cybermediary.

L’estensione della conoscenza e l’annullamento dello spazio tra realtà e fantascienza. Gilde spaziali e cybermediary.

Siamo nell’Universo di Dune creato da Frank Herbert nel 1965, ambientato nell’Anno Domini 10191: l’universo conosciuto è governato dall’imperatore Padishah Shaddam IV e, per l’umanità, la più preziosa e vitale sostanza dell’u-niverso è il Melange, la spezia.

La spezia allunga il corso della vita.

La spezia aumenta la conoscenza.

La spezia è essenziale per annullare lo spazio.

La potente Gilda spaziale e i suoi navigatori, che la spezia ha trasformato nel corso di oltre 4000 anni, usano il gas arancione della spezia che conferisce loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè, di viaggiare in qualsiasi parte dell’universo senza mai muoversi.

La spezia esiste su un solo pianeta nell’intero universo conosciuto. Un arido e desolato pianeta con vasti deserti.

Il pianeta Arrakis è conosciuto anche come Dune (1).”

Senza troppa speculazione e inventiva e togliendo l’aspetto esotico che caratterizza il celeberrimo romanzo: l’umanità, correva l’anno 1989, inventava quanto più di simile esiste alla spezia, ossia la Rete. Il World Wide Web, per come noi lo conosciamo, è al pari della spezia di Frank Herbert un formidabile strumento che in poche decadi ha rivoluzionato i rapporti economici e sociali, cambiando profondamente la società in cui viviamo.

A differenza della spezia, tuttavia, è estremamente facile accedere al World Wide Web: è, infatti, sufficiente munirsi di un dispositivo collegato alla Rete e di una connessione Internet offerta dagli operatori telefonici a costi sempre più economici.

Lungi dall’esistere su un solo remoto e desolato pianeta, sempre più persone sul globo terrestre hanno accesso a questa formidabile tecnologia da cui sono sempre più dipendenti.

La Rete, al pari del Melange, assuefà chi vi si connette che ne diventa sempre più dipendente, a prescindere dal fatto che la connessione al Web sia operata per esigenze personali oppure legate allo svolgimento di un’attività di impresa.

Nell’Universo di Dune, solamente la Gilda Spaziale detiene il monopolio sul commercio della spezia e anche questo dato si presta a un’analogia con il nostro universo.

Nel nostro universo, gli intermediari digitali, al pari della Gilda Spaziale, hanno un monopolio di fatto sui servizi della società dell’informazione nell’ambito dei quali dispensano benefici, punizioni ed erogano giustizia sulla base di termini e condizioni che loro stessi hanno stabilito. Si pensi a Google per i servizi di motori di ricerca, ad Amazon per l’E-commerce o, ancora, a Microsoft per i sistemi operativi e gestionali per consumatori e imprese.

La Rete ha cancellato precedenti confini e limiti dettati dallo spazio fisico e ha costruito modalità nuove di produzione e utilizzazione della conoscenza al pari della spezia. I rapporti di produzione, distribuzione e consumo sono stati, quindi, rivoluzionati dalle fondamenta proprio grazie alla possibilità che la Rete offre di condividere informazioni, abbattere spazi e creare occasioni di contatti fra persone fisiche e fra imprese.

L’annullamento dello spazio fisico ha dato luogo ai fenomeni, in contraddizione solo apparente, di disintermediazione e di intermediazione online e ha permesso la concentrazione di un potere economico prima inimmaginabile nelle mani di pochissimi cybermediary che gestiscono piattaforme online il cui utilizzo è diventato fondamentale nelle nostre vite.

Il potere economico di cui dispongono i cybermediary, lungi dal rappresentare sempre un’opportunità per i destinatari dei servizi, può essere utilizzato abusivamente in danno agli utenti commerciali e con effetti non necessariamente benefici per i consumatori. In questo quadro di sviluppo tecnologico ed economico è entrato in crisi il ruolo tradizionale dei cybermediary: prima fornitori passivi di un servizio tecnico, ora più che mai si trovano ad avere un ruolo attivo nella gestione dei contenuti caricati e condivisi dai propri utenti.

Il cybermediary, oltre ad avere un enorme potere economico, diventa anche giudice ultimo e supremo all’interno dei servizi che gestisce e le sue decisioni incidono significativamente sulle sfere personali e professionali degli utenti che si servono dei suoi servizi.

Inoltre, la Rete ha riequilibrato il rapporto a favore del consumatore, accordandogli un potere prima inimmaginabile: condividere feedback, recensioni, valutazioni in merito alle proprie esperienze di consumo.

Come la spezia ha mutato nel fisico e nella psiche i navigatori, i servizi basati sulla Rete hanno mutato profondamente la figura stessa del consumatore che non è più un mero acquirente passivo di beni o servizi.

Si è assistito, in questo quadro complesso, alla nascita della nuova figura del prosumer digitale, che è una persona fisica sempre più informata che acquista in rete beni e servizi e che condivide, tramite i servizi della società dell’informazione, le proprie esperienze di consumo, incidendo in maniera sostanziale sull’asimmetria informativa. Lo scambio di informazioni sul Web 2.0, infatti, opera sulla base di dinamiche che si fondano su una partecipazione attiva non solo dei fornitori di servizi della società dell’informazione o degli operatori economici, ma anche dei consumatori stessi.

Si aggiunga, peraltro, che di fronte alla velocità attraverso la quale le informazioni circolano in rete il rimedio giudiziale ha perso di centralità, essendo i formalismi del processo civile e della tutela giudiziale incompatibili con la necessità di tutela e presidio immediata dell’imprenditore in rete.

Molte vertenze sono, pertanto, affidate a strumenti di Alternative Dispute Resolution che presentano vantaggi in termini di costi ed efficienza rispetto al tradizionale rimedio giudiziale o vengono gestite con sistemi che il cybermediary ha creato e plasmato. Nonostante l’introduzione del Regolamento Platform2Business, la tutela apprestata dal Regolamento (UE) 2019/1150 risulta molto più formale rispetto al quadro dettato, ad esempio, in tema di tutela e protezione del consumato-re (2) o della persona fisica nell’ambito dei trattamenti di dati personali che la riguardano, avente un’ampia, corposa e sostanziale tutela all’interno del General Data Protection Regulation (3).

Pertanto, il nuovo impianto normativo risulta indicativo della persistente scarsa sensibilità delle Istituzioni europee alle esigenze di tutela delle imprese che si trovano in posizione di dipendenza economica verso i cybermediary.

Nel nostro universo come in quello di Dune, il potere non è quindi distribuito in ugual misura e, sebbene a differenza della spezia la Rete sia accessibile agevolmente, la distribuzione del potere attraverso i servizi online ha creato un vero e proprio feudalesimo digitale.

La rete allunga il corso della vita.

La rete aumenta la conoscenza.

La rete è essenziale per annullare lo spazio.

I potenti cybermediary e i loro navigatori, che la rete ha trasformato nel corso di poche decadi, usano i servizi basati sulla rete che conferiscono loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè, di viaggiare in qualsiasi parte dell’universo senza mai muoversi.

La rete esiste intorno a noi e siamo noi”.

Giacomo Conti

 

Per informazioni sul testo v. https://www.maggiolieditore.it/lineamenti-di-diritto-delle-piattaforme-digitali-volume-1.html

 

(1) Si riporta la citazione della Principessa Irulan Corrino, figlia dell’imperatore Padi-shah Shaddam IV e futura sposa del protagonista del romanzo Paul Atreided Muad’Dhib. La citazione è tratta non dal testo, ma dal film di Dune scritto e diretto da David Linch nel 1984 e basato sul celeberrimo romanzo di Frank Herbert del 1965.

(2) V. direttiva 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, sui diritti dei consumatori, recante modifica della direttiva 93/13/CEE del Consiglio e della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 85/577/CEE del Consiglio e la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.

(3) Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati).

di Giacomo Conti e Anna Lucia Calò

Il GDPR è, indubbiamente, un pilastro indispensabile sia per la tutela dei nostri diritti e libertà fondamentali sia per la creazione di un mercato unico digitale: nell’era dell’informazione, per costruire la fiducia dei consumatori nel mercato online, è indispensabile garantire che i dati personali circolino liberamente e siano adeguatamente protetti. Pertanto, il GDPR si erge a buon diritto come il primo pilastro del mercato unico digitale e, forse, il più noto e conosciuto ai più.

Al pari del GDPR, il Regolamento (UE) n.1807/18, conosciuto come Free Flow Data Regulation o FFD Regulation, mira a garantire la libera circolazione dei dati diversi dai dati personali all’interno dell’Unione e, allo scopo, detta disposizioni relative agli obblighi di localizzazione, alla messa a disposizione dei dati alle autorità competenti e alla portabilità dei dati non personali per gli utenti professionali.

La norma che si pone come imprescindibile completamento del GDPR trova, pertanto, il suo naturale campo di applicazione nell’ambito dei più disparati servizi che vengono erogati online: dall’archiviazione, Infrastructure-as-a-Service – IaaS, al trattamento di dati su piattaforme, Platform-as-a-Service – PaaS, o in applicazioni, Software-as-a-Service – SaaS (Cons. 17 Reg. 2018/1807).  Al pari del GDPR, il Free Flow Data Regulation, si pone come ulteriore pilastro del mercato unico digitale.

Il combinato disposto dei due regolamenti, per quanto indispensabile e imprescindibile, non è sufficiente a completare la realizzazione del mercato unico digitale e, soprattutto, a contrastare adeguatamente le nuove forme di discriminazione geografiche che si declinano in un mercato digitalizzato: un imprenditore che opera in ambito digitale può, infatti, arrivare a discriminare i clienti sulla base della provenienza geografica, localizzandone ad esempio l’indirizzo IP, oppure arrivare a reindirizzarli, in via automatica, a una distinta e diversa interfaccia rispetto a quella iniziale, che ovviamente presenta delle offerte diverse.

Questa prassi prende il nome di geoblocking: neologismo basato su una crasi del termine gèo di origine greca, che significa terra, globo o superficie terrestre e dell’inglese blocking, dal verbo inglese to block, che vuol dire bloccare, impedire o ostruire.

Nell’era digitale, una parte sempre crescente di attività economiche avviene online all’interno dei servizi che il Web offre e che tutti noi conosciamo e usiamo quotidianamente. Pertanto, il Mercato Unico inteso come spazio economico e geografico aperto e senza frontiere interne, grazie al quale merci, persone, servizi e capitali possono circolare liberamente va riconsiderato nella sua dimensione concettuale e declinazione digitale.

Le barriere digitali poste da molti fornitori di servizi dell’informazione nell’era dell’informazione appaiono altrettanto e forse anche più lesive delle barriere fisiche che gli Stati possono ergere contro la concorrenza straniera erigendo muri e ponendo frontiere.

In questo contesto, di profonda e continua evoluzione sociale e tecnologica, interviene il Regolamento (UE) 2018/302, noto come Geoblocking Regulation, che pone un divieto di discriminazione ingiustificata dei clienti nel commercio online sulla base della provenienza geografic: pietra miliare di questo regolamento è l’introduzione del divieto dei blocchi geografici ingiustificati nell’ambito dell’erogazione di servizi basti sulla Rete.

Il considerando 1 del Geoblocking Regulation evidenzia come, per conseguire il pieno potenziale del mercato interno come spazio l’eliminazione degli ostacoli fisici e materiali non è sufficiente se, nella sostanza, vengono frapposte barriere digitali che ostacolano lo sviluppo del mercato interno.

L’e-commerce transazionale, pur essendo una colonna portante del Mercato Unico, presenta gravi rischi per la tenuta del mercato stesso e, uno dei principali, è rappresentato proprio dai geoblocking. Attraverso questa attività, gli imprenditori possono arrivare a segmentare artificialmente il mercato interno, ostacolando la libera circolazione delle merci e dei servizi, limitando i diritti dei clienti e impedendo loro di beneficiare di una scelta più ampia e di condizioni ottimali.

Il GeoBlocking Regulation, per contrastare questo fenomeno, disciplina compiutamente i seguenti aspetti alla base delle transazioni online:
• accesso alle interfacce online;
• accesso a beni o servizi;
• non discriminazione per motivi legati al pagamento;
• accordi sulle vendite passive;
• assistenza ai consumatori.

Pertanto, chiunque, attivi o gestisca un servizio di e-commerce, non deve rispettare solo il GDPR, ma deve anche garantire il rispetto del GeoBlocking Regulation che, nella sua essenzialità – 11 articoli e 43 considerando – detta una disciplina complessa e articolata.

di Giacomo Conti

 

Per gestire a norma di Legge un servizio di e-commerce è necessario essere trasparenti verso i consumatori ed evitare comportamenti che possono realizzare pratiche commerciali scorrette, ossia idonee a indurre il consumatore “medio” ad operare scelte che commerciali e di consumo che, laddove l’informazione fosse stata completa e trasparente, non avrebbe preso.

I professionisti sono tenuti a mantenere standard di diligenza particolarmente elevati, tali da consentire al consumatore di determinarsi consapevolmente e liberamente in un mercato concorrenziale.

L’omessa indicazione nel prezzo pubblicizzato all’inizio del contatto, di tutti gli oneri non evitabili che sono successivamente addebitati al consumatore è sicuramente una pratica commerciale scorretta.

Ugualmente, integrano pratiche commerciali scorrette l’aver fornito ai consumatori informazioni non veritiere sui tempi di consegna dei prodotti offerti, l’aver consegnato prodotti diversi da quelli ordinati, ovvero giunti a destinazione oltre i tempi pattuiti, l’aver opposto ostacoli all’esercizio di diritti contrattuali da parte dei consumatori come la difficoltà di contattare i fornitori del servizio o la mancata sostituzione del prodotto diverso da quello ordinato, l’avere invitato all’acquisto di prodotti a un determinato prezzo senza rivelare l’esistenza di prevedibili ragioni che avrebbero impedito la consegna degli stessi a quel prezzo.

Ugualmente, la semplice indicazione “composizione tipo”, se non indicata in tutti i suoi elementi e in più accostata ad una illustrazione fotografica che raffigura una composizione completa può essere considerata una pratica commerciale scorrettezza.

Se al consumatore non vengono fornite informazioni puntuali, precise e concrete il consumatore può essere indotto a credere che la composizione tipo si riferisca all’immagine in foto ed essere, conseguentemente, indotto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Integra pratica commerciale scorretta, quindi, anche il non essere in grado di fare fronte a tutte le richieste di acquisto da parte dei consumatori.

Per contro, la scelta del metodo di adesione del consumatore all’offerta mediante meccanismo opt out anziché opt in, dato che la prassi non incide in misura apprezzabile sul comportamento economico del consumatore, non è, invece, una pratica scorretta in quanto non incide sulla possibilità del consumatore di autodeterminarsi.

Nell’ottica di tentare di massimizzare i profitti è facile incorrere, anche inconsapevolmente, in comportamenti scorretti che comportano significative conseguenze per l’operatore economico che le ha realizzate.

La Cassazione ha, in una recente pronuncia, ritenuto che integra il reato di sostituzione di persona (494 Cod. Pen.) la condotta di colui che crei ed utilizzi un account ed una casella di posta elettrica o si iscriva ad un sito e-commerce servendosi dei dati anagrafici di un diverso soggetto.

Nel caso affrontato, il soggetto sostituito era inconsapevole del fatto che il reato era stato commesso ai suoi danni per fare ricadere le conseguenze derivanti dall’inadempimento delle obbligazioni conseguenti all’avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete o altri strumenti contrattuali.

Questa pronuncia, senza essere particolarmente innovativa, rispecchia un consolidato orientamento della Suprema Corte secondo il quale la partecipazione di un soggetto ad aste on-line con l’uso di uno pseudonimo attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto integra il reato di sostituzione di persona.

Peraltro, la creazione e l’utilizzo di account falso e la conseguente realizzazione del reato può comportare, nei casi più gravi, anche lo sfruttamento abusivo dell’immagine reale e delle sembianze di un terzo soggetto.

Sotto il profilo soggettivo, infine, il dolo specifico del reato di sostituzione di persona viene integrato quando vi è coscienza e volontà di sostituirsi a un terzo con l’ulteriore scopo di arrecare a questi un danno o di assicurarsi un vantaggio anche non necessariamente economico.

 

di Giacomo Conti