BREVE DESCRIZIONE DEL CONVEGNO

Convegno di studi avente ad oggetto: “L’informatica e il diritto dei contratti: Blockchain e Smart Contracts”

Data: Martedì 21 giugno 2023 – ore 14.30 – 18.30

Luogo del convegno: Sala Crociera di Giurisprudenza presso Università degli Studi di Milano in Via Festa del Perdono n. 7

RELATORI E INTERVENTI

15.00 – Introducono e coordinano
Prof. Lucio Camaldo – Presidente Algiusmi – Università degli Studi di Milano
Dott. Stefano Gazzella – Coordinatore Comitato scientifico AssoInfluencer
15.30 – Professione Influencer
Arianna Chieli, Creator Digitale e Content Strategist
16.00 – Il diritto dell’influencer: work in progress?
Prof. Pierluigi Perri, Docente di Informatica giuridica, Università degli Studi di Milano
16.30 – La tutela legale dei contenuti digitali
Prof.ssa Silvia Giudici, Docente di Diritto industriale, Università degli Studi di Milano
17.00 – Profili giuslavoristici dei creator
Avv. Paolo Iervolino, Vicecoordinatore Comitato scientifico AssoInfluencer, Assegnista di ricerca presso l’Università di Palermo
17.30 – Le nuove professioni digitali e non ordinistiche
Avv. Massimo Burghignoli, Past President Algiusmi
18.00 – I rapporti tra Piattaforma e Creator
Avv. Giacomo Conti, Socio Algiusmi e Patreon AssoInfluencer
18.30 – Interventi e dibattito

17.30 – Interventi programmati e dibattito

18.30 – Chiusura dell’incontro

BREVE DESCRIZIONE DELL’INTERVENTO DELL’AVV. GIACOMO CONTI

Il convengo si propone di esaminare i rapporti economici e giuridici nell’ambito dell’ecosistema delle piattaforme digitali.
Dopo avere fatto luce su cosa si intenda per Influencer e messo in luce i profili di professionalità dei creatori di contenuti, si affronteranno i profili relativi alla tutela dei contenuti digitali e giuslavoristici.

Per meglio comprendere la portata di questa nuova figura professionale, verranno esaminati i profili relativi alle nuove professioni digitali e non ordinistiche nonché i rapporti Platform2Business, con particolare riguardo ai rapporti fra creatore di contenuti e piattaforma.

L’intervento dell’avvocato Conti pone dapprima il focus sull’ecosistema di rapporti giuridici che le piattaforme digitali creano per mettere al centro la figura del creatore dei contenuti e dell’influencer, analizzando i rapporti fra queste importanti figure centrali nell’ambito dell’economia del web 2.0.
Successivamente, dopo averne analizzato i tratti distintivi della figura dell’influencer, si analizza come l’influencer sia al centro di una serie complessi di rapporti, ad esempio con la propria fanbase, con i propri sponsor ma anche con la piattaforma online.
Nonostante la centralità di questa figura, l’influencer può essere oggetto di comportamenti di abuso da parte delle grandi piattaforme digitali che, attraverso i propri poteri, possono penalizzarne fortemente l’attività, ad esempio demonitizzandone o rimuovendone i contenuti o bloccandone il canale. Ma anche con comportamenti più subdoli, come collocarlo ingiustificatamente in fondo ai risultati di ricerca facendogli perdere importanti visualizzazioni e, per l’effetto, occasioni di crescita e sviluppo professionale.
Pertanto, vengono analizzati i profili di tutela che l’ordinamento civilistico offre a questa figura partendo dai rimedi in house alla piattaforma per poi approfondire i profili di tutela giudiziale.

Il convegno nasce da una sinergia fra Algiusmi, Associazione dei Laureati di Giurisprudenza dell’Università di Milano, ed AssoInfluencer, associazione rappresentativa dei creatori di contenuti a livello nazionale

Scarica la locandina del convegno cliccando alla seguente risorsa: SAlgiusmi_AssoInfluencer 21-06-2023

Scarica le slide dell’intervento dell’Avv. Giacomo Conti: Rapporti Piattaforma2Influencer Conti

Per maggiori approfondimenti sul tema:

https://www.maggiolieditore.it/lineamenti-di-diritto-delle-piattaforme-digitali-volume-1.html

https://www.maggiolieditore.it/lineamenti-di-diritto-delle-piattaforme-digitali-volume-2.html

La sentenza 322/2023 del Tribunale di Milano rappresenta una pietra miliare in tema di responsabilità degli istituti di credito in materia di responsabilità da trattamento illecito di dati personali e per mancata prevenzione del rischio frodi e perdite finanziarie.

Le materie, infatti, presentano importanti punti di contatto e interferenza in quanto il considerando 75 al GDPR prevede espressamente le perdite finanziarie come uno dei rischi tipici derivanti da una violazione del GDPR.

La direttiva PSD2 impone a banche e istituti di credito stabilisce di adottare specifiche misure di protezione e sicurezza dei correntisti la cui efficace e corretta applicazione deve essere dimostrata secondo quanto richiede il principio di accountability.

La Corte Meneghina, nel caso in esame, ha tracciato un chiaro quadro giuridico in tema di responsabilità derivante da mancata gestione del rischio derivante dal trattamento di dati personali intervenendo chiaramente sui criteri di ripartizione dell’onere della prova.

Il Tribunale, applicando correttamente il principio di accountability, ha stabilito che grava in capo a questi l’onere di dimostrare di avere adottato adeguate misure di protezione della clientela per prevenire il rischio frodi e perdite finanziarie.

La pronuncia in esame dà atto di come la giurisprudenza di legittimità abbia già precedentemente inquadrato la responsabilità dell’istituto di credito nell’ambito della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose. La Corte ha richiamato i precedenti in tema di disposizioni non autorizzate dal cliente su conto corrente mediante accesso abusivo a sistema di internet banking e conseguenti riflessi applicativi nell’ambito della responsabilità per trattamento dei dati personali (cfr. Cassazione, sez. I, 23 maggio 2016 n. 10638).

Secondo l’art. 15 del d.lgs. 196/2003 (Codice Privacy), citato dal Tribunale: “chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile”, l’istituto di credito deve fornire la prova liberatoria dalla propria responsabilità dimostrando di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Da valutarsi secondo le conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati, alle caratteristiche specifiche del trattamento, mediante adozione di misure idonee e preventive per impedire l’accesso o il trattamento non autorizzato ai sensi dell’art. 31 e 36 del d.lgs. 196/2003.

Applicando in combinato disposto l’art 2050 c.c. e l’art. 15 del codice della privacy, l’istituto che svolge un’attività di tipo finanziario o in generale creditizio (…) risponde, quale titolare del trattamento di dati personali, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico del cliente mediante la captazione dei suoi codici di accesso e le conseguenti illegittime disposizioni di bonifico. La responsabilità è esclusa solo se il titolare prova che l’evento dannoso non gli è imputabile perché discendente da trascuratezza, errore (o frode) dell’interessato o da forza maggiore.

La Cassazione ha, quindi, rilevato che ad analoga conclusione si perviene applicando le disposizioni del d.lgs. 11/2010 di attuazione della direttiva 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno. L’art. 10 del d.lgs. 11/2010 pone in capo al prestatore dei servizi di pagamento l’onere di dimostrare, in caso di disconoscimento di una operazione l’onere di dimostrare che l’operazione non ha subito le conseguenze del malfunzionamento delle procedure necessarie per la sua esecuzione ovvero altri inconvenienti connessi al servizio in caso di disposizione di ordini di pagamento in caso di disconoscimento dell’operazione da parte del cliente.

Richiamando la Cassazione, il Tribunale di Milano argomenta che “in punto di ripartizione delle responsabilità derivanti dall’utilizzazione del servizio, il citato D.Lgs., artt. 10 e 11, prevede che, qualora l’utente neghi di aver autorizzato un’operazione di pagamento già effettuata, l’onere di provare la genuinità della transazione ricade essenzialmente sul prestatore del servizio. E nel contempo obbliga quest’ultimo a rifondere con sostanziale immediatezza il correntista in caso di operazione disconosciuta, tranne ove vi sia un motivato sospetto di frode, e salva naturalmente la possibilità per il prestatore di servizi di pagamento di dimostrare anche in un momento successivo che l’operazione di pagamento era stata autorizzata, con consequenziale diritto di chiedere e ottenere, in tal caso, dall’utilizzatore, la restituzione dell’importo rimborsato”.

Per l’effetto, il Tribunale ha ritenuto che tale onere non può venire assolto senza la dimostrazione dell’adozione di specifiche cautele antiphishing “idonee ad evitare l’acquisizione fraudolenta delle chiavi di accesso al sistema da parte di terzi” (così Cass., Sez. I, 29.12.2017 n. 31199).

L’istituto di credito convenuto, nel caso in esame, non ha dimostrato e nemmeno specificamente allegato, secondo il Tribunale, quali cautele avrebbe adottato sia in generale per contrastare il fenomeno del phishing sia nello specifico per evitare il prodursi del danno patito dagli attori, con riguardo a ciascuno dei tre bonifici istantanei eseguiti senza l’autorizzazione degli attori.

Il Tribunale non ha, pertanto, ritenuto assolto l’onere della prova gravante sull’istituto di credito ai sensi dell’art. 1218 c.c. e la conseguente non imputabilità del danno.

Secondo la Corte meneghina, gli istituti di credito devono adottare in relazione a tali operazioni delle cautele e verifiche ulteriori rispetto a quelle predisposte per i bonifici standard, cautele e verifiche che devono essere preliminari all’esecuzione della disposizione, per evitare che la disposizione impartita da terzi non autorizzati provochi effetti irreversibili sul patrimonio del pagatore, cautele che, nel caso di specie la convenuta ha completamente pretermesso, non avendo compiuto alcuna specifica attività in tal senso.

Importantissimo è il principio affermato dalla Corte Territoriale secondo cui l’automatizzazione dei controlli bancari consentita dal progresso scientifico e tecnologico non può comportare una regressione del livello di tutela che deve essere garantito al singolo risparmiatore.

Tale soluzione, imposta dalla disciplina di cui agli artt. 10 ss. del d.lgs. 11/2010, appare del tutto coerente anche dal un punto di vista dell’analisi economica del diritto privato. Pertanto laddove gli istituti di credito omettano di adottare sistemi di controllo per evitare il perpetrarsi di frodi ai danni dei propri clienti dovranno risarcire il danno subito dai propri clienti derivante da questo inadempimento.

Infine, il Tribunale di Milano ha argomentato come l’istituto di credito convenuto non ha nemmeno documentato o altrimenti provato di essersi effettivamente attivata per ottenere dal prestatore del servizio di pagamento del beneficiario dell’operazione, il consenso alla revoca dell’operazione ai sensi dell’art. 17.5 d.lgs. 28/2010, e risulta, anzi, dimostrato dall’attrice che solo la denuncia all’autorità di polizia giudiziaria abbia consentito di recuperare, benché parzialmente, le somme oggetto delle disposizioni disconosciute.

 

In allegato, per maggiori approfondimenti, il testo integrale del provvedimento Sentenza n. 322-2023 BLIND

In allegato il Contratto tipo contitolartà 26 GDPR Baden Wuttermberg  Modello contrattuale ai sensi dell’art. 26 GDPR fra contitolari del trattamento elaborato dall’Autorità di controllo per la protezione dei dati personali del Baden-Württemberg, Germania.

 

Traduzione a cura di Christopher SCHMIDT, CIPP/E CIPM CIPT CBSA con il contributo di Giacomo Conti

 

Il testo in lingua originale è reperibile al seguente link: https://www.baden-wuerttemberg.datenschutz.de/mehr-licht-gemeinsame-verantwortlichkeit-sinnvoll-gestalten/.Non 

 

di Giacomo Conti

Nell’era del Web 2.0 è più che mai attuale la massima secondo la quale: “Se non paghi un prodotto, allora il prodotto sei tu”.

Tutti noi utilizziamo i servizi della società dell’informazione quali, ad esempio, Google, Facebook, Amazon, Netflix. Giganti tecnologici come Apple sviluppano, inoltre, le proprie piattaforme commerciali App Store, iTunes Store e Apple Books.

Mentre alcuni servizi prevedono un sistema di fruizione attraverso il pagamento di un canone, altri servizi operano in maniera più subdola e, dietro un’apparente gratuità, chiedono in realtà come corrispettivo i nostri dati personali che vengono forniti da consumatori, molto spesso, inconsapevoli.

I dati dei consumatori vengono, infatti, monetizzati e ceduti a terzi oppure utilizzati direttamente dal fornitore del servizio attraverso un’attività promozionale per aumentare la vendita dei propri prodotti e/o di quelli di terzi. Questo, a prescindere dal fatto che si paghi o meno per il servizio.

Dopo avere tracciato un quadro generale sulla complessa relazione fra piattaforme online, consumatori (Platform2Consumer) e utenti commerciali (Platoform2Business) e dopo avere il modello economico di queste piattaforme, l’intervento ha lo scopo di mettere in relazione i profili di interferenza fra protezione fra il diritto alla protezione del dato la protezione del consumatore.

Nella seconda parte verranno poi approfondite i procedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nei confronti di Google Ireland Ltd. e di Apple Distribution International Ltd dove entrambe le piattaforme sono state sanzionate per 10 milioni di euro ossia per il massimo edittale secondo la normativa vigente.  L’Antitrust ha, infatti, accertato per ogni società due violazioni del Codice del Consumo, una per carenze informative e un’altra per pratiche aggressive legate all’acquisizione e all’utilizzo dei dati dei consumatori a fini commerciali.

 

 

 

Per il testo integrale dei provvedimenti dell’AGCM:  v. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2021/11/PS11147-PS11150Platform2bus

 

In allegato le slide dell’intervento al convegno e-privacy XXXI – ««Privacy tra attivismo e scienza» – prima giornata – pomeriggio

220929 SLIDE CONTI EPRIVACY

con l’Avv. Andrea Lisi, l’Avv. Giacomo Conti e il Dott. Alessandro Bottonelli

Lo ho-BIT ‖ Ep.16

Sospesi tra due realtà: il web non è più “altro” rispetto alla nostra realtà fisica. Al suo interno coesistono nuovi spazi “essenziali” per la società, quali servizi, piattaforme, app e strumenti di lavoro a distanza.

L’evoluzione tecnologica non riguarda più solo i modelli di business: l’enorme potere dei grandi player influenza anche le dinamiche individuali e il quadro dei rapporti sociali.

L’Avv. Andrea Lisi affronterà con l’Avv. Giacomo Conti, specializzato in nuove tecnologie e web reputation, e Alessandro Bottonelli, CEO & Lead Advisor di AxisNet, l’importanza di conoscere i meccanismi e imparare a utilizzare in modo consapevole il web “partecipativo”, anche per evitare di divenire a nostra volta oggetto di “utilizzo” da parte delle stesse piattaforme o di chi le gestisce.

 

Link al contenuto video: 🟣 Quanto apparteniamo alla rete? 🟣 Lo ho-BIT – Andrea Lisi – MRTV – YouTube

di Giacomo Conti

 

La funzione principale del mediatore immobiliare[1] è quella di mettere in relazione il venditore di un immobile con il compratore e di aiutare le parti nel determinare elementi essenziali del contratto come, ad esempio, il prezzo di vendita ed accessori, come il termine per la liberazione dell’immobile. Questo specifico obbligo è regolato dall’art. 1754 del Codice Civile.

Oltre ad avere funzioni operative, il mediatore, come ogni altro professionista, ha obblighi di informazione specifici nei confronti dei propri clienti: l’art. 1759 del Codice Civile obbliga, infatti, l’agente anche a comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione dello stesso.

La giurisprudenza è, a numerose riprese, intervenuta per definire la portata e l’estensione degli obblighi informativi del mediatore immobiliare valorizzando, di volta in volta, la natura professionale dell’agente immobiliare. Ne consegue che, al giorno d’oggi, il mediatore deve adottare un maggior grado di diligenza rispetto al buon padre di famiglia e deve operarsi attivamente per individuare anche eventuali abusi edilizi che potrebbero essere ostativi alla commerciabilità dell’immobile.

In questo senso, si è pronunciata la Cassazione civile, sez. II, 16/01/2020, n. 784, la quale ha statuito che: “La condotta del mediatore risponde a criteri di diligenza qualificata in osservanza dei quali egli è tenuto, pur in assenza di uno specifico incarico a svolgere accertamenti di natura tecnico giuridica sull’immobile, a riferire su irregolarità edilizie a lui note o, comunque, conoscibili con la diligenza mediamente richiesta in relazione al tipo di prestazione dovuta”.

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’agente immobiliare rivendicava il pagamento della propria provvigione nonostante l’immobile venduto presentasse diversi abusi edilizi. L’agente sosteneva come egli non fosse tenuto, in virtù del contratto di mediazione, ad informare le parti sull’esistenza di eventuali irregolarità urbanistiche alla stipula del definitivo.

La Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui il mediatore immobiliare non può, per il solo fatto di non avere assunto l’espresso compito di effettuare accertamenti tecnico giuridici sull’immobile, ritenersi esentato dall’obbligo derivante dagli articoli 1176 e 1759 del Codice Civile. Quest’obbligo si articola in un dovere specifico di comunicare alle parti interessate, oltre alle circostanze a lui note, anche quelle conoscibili con la comune diligenza in relazione al tipo di prestazione dovuta[2]. Inoltre, è stata ritenuta irrilevante la circostanza che le parti fossero precedentemente a conoscenza degli abusi.

La Suprema Corte, applicando i principi di buona fede e correttezza contemplati agli artt. 1175 e 1375 c.c., interpreta estensivamente l’art. 1759 c.c. nel senso che il mediatore è tenuto a salvaguardare l’interesse delle parti informandole su ogni fatto rilevante ai fini della conclusione dell’affare che sia noto o, comunque, accessibile ad un professionista di medie capacità.

La portata dell’obbligo informativo riguarda circostanze desumibili dalla portata dell’incarico affidato al mediatore, dal contesto territoriale in cui lo stesso opera la propria attività nonché dalle divergenze tra la descrizione dell’immobile oggetto di vendita e l’effettivo stato dei luoghi[3].

Il mediatore, pur non essendo tenuto, in difetto di un incarico specifico, a svolgere nell’adempimento della sua prestazione particolari indagini di natura tecnico – giuridica, come l’accertamento della libertà da pesi dell’immobile oggetto del trasferimento, ad esempio richiedendo ad esempio visure catastali o ipotecarie allo scopo di individuare fatti rilevanti ai fini della conclusione dell’affare, è pur tuttavia gravato di obblighi informativi specifici verso le parti.

L’agente è, da un lato, gravato dall’obbligo positivo di comunicare le circostanze a lui note o comunque conoscibili con la comune diligenza qualificata e specifica in relazione al tipo di prestazione che gli è richiesta, nonché, in negativo, dal divieto di fornire  informazioni non veritiere o furovianti.

La portata negativa estende l’obbligo anche al divieto di divulgare informazioni su fatti dei quali non abbia consapevolezza e che non abbia controllato poiché il dovere di correttezza e quello di diligenza gli imporrebbero in tal caso di astenersi dal darle piuttosto che dal ricercare attivamente l’informazione che fornisce. Dunque e a maggior ragione, deve ritenersi inadempiente un agente immobiliare che, pur avendo individuato le irregolarità urbanistico-edilizie, abbia proposto alle parti soluzioni non adeguate al solo fine di addivenire alla conclusione dell’affare.

Ne consegue che, qualora il mediatore infranga tali regole di condotta, è legittimamente configurabile una sua responsabilità per tutti i danni sofferti dal cliente a causa del suo inadempimento derivante dalla violazione degli obblighi informativi a prescindere dalla conclusione dell’affare[4]. Questi danni possono concretarsi, ad esempio, in spese legali, riduzione del prezzo dell’immobile e anche nella perdita o restituzione delle caparre.

La responsabilità dell’agente non dovrebbe, però, arrivare a coprire anche il danno relativo alle spese per sanare gli abusi che possono essere imputati esclusivamente al tecnico che ha contribuito a realizzarlo e alla proprietà che ha alienato un immobile viziato, secondo i principi generali di garanzia per vizi del venditore.

La recente pronuncia si inserisce nella scia di un orientamento consolidato nel tempo che ha ampliato le responsabilità degli agenti immobiliari. In questo senso, già secondo la più risalente sentenza 16.7.2010, n. 16623, la mancata informazione del promissario acquirente sull’esistenza di una irregolarità urbanistica non ancora sanata relativa all’immobile oggetto della promessa di vendita, della quale il mediatore stesso doveva e poteva essere edotto legittimava il rifiuto del medesimo promissario di corrispondere la provvigione. Nel caso specifico, infatti, il vizio poteva agevolmente desumibile dal riscontro tra la descrizione dell’immobile contenuta nell’atto di provenienza e lo stato effettivo dei luoghi dopo un sopralluogo.

Ne consegue che l’agente immobiliare ha un obbligo specifico di verificare la conformità dello stato di fatto dell’immobile a quella urbanistico-edilizia servendosi, nel caso, anche di un tecnico qualificato come un geometra o un architetto.

[1] Giova precisare che la figura professionale che nel linguaggio comune è indicato come agente, nel codice civile è definito come mediatore. Il contratto di agenzia ha, infatti, natura e causa differenti. Nella narrativa del testo i termini mediatore e agente possono anche arrivare a sovrapporsi.

[2]V. in senso conforme, cfr. Cass., Sez. II, 21 febbraio 2017 n. 4415; Id., 16 settembre 2015 n. 18140; Id., 8 maggio 2012 n. 6926

[3] V. Cass., Sez. II, 16 luglio 2010 n. 16623.

[4] V. Cass. 16.7.2010, n. 16623.

 

Autore: Giacomo Conti

Editore: Maggioli Editore

Pubblicazione: Novembre 2020 (I Edizione)

ISBN / EAN 8891643469 / 9788891643469

Collana: Collana Legale

 

Prefazione:  “La libertà è partecipazione” e l’inestrinsecabile legame fra corpo elettronico e materiale

 

I sogni di libertà ed emancipazione che si fondavano su un’idea di progresso tecnologico che avrebbe reso tutti liberi appartengono a un’epoca passata.

I sogni di idillio e trascendenza tecnologica, secondo cui la tecnologia ci avrebbe liberati dalle fatiche umane permettendoci di elevarci e trascendere e liberarci dalla nostra gabbia materiale per avvicinarci a un altro reame dell’esistenza, appartengono a società utopistiche ben lontane dalla nostra.

Queste sono e restano sulla carta, o in formato e-book, descritte in romanzi di fantascienza.

Permane, però, il legittimo interrogativo relativo alla libertà reale che gli strumenti del Web partecipativo 2.0 ci offrono e il quesito si pone, in ogni caso, immutato nei seguenti termini: “Internet, il Web e le tecnologie della società dell’informazione hanno migliorato la nostra esistenza rendendoci più liberi?”.

In un certo senso, si può e si deve dare una risposta affermativa alla questione, in quanto le tecnologie di Rete ci hanno liberato da fatiche non solo fisiche ma anche intellettuali. Le tecnologie basate sulla Rete ci hanno, infatti, sicuramente resi più informati, talvolta istruiti, e hanno semplificato le nostre attività di ricerca e approfondimento intellettuale contribuendo a soddisfare le nostre più svariate curiosità.

È, pertanto, innegabile che le dinamiche del Web partecipativo abbiano  migliorato qualitativamente le nostre vite ed esperienze di consumo grazie alle numerose informazioni e opportunità che i servizi di Rete ci offrono. Senza contare, peraltro, la comodità di consumare senza doversi recare fisicamente al negozio fisico.

Rimane aperta, però, la seconda parte del quesito, ossia se le tecnologie di Rete ci abbiano o meno resi più liberi rispetto al passato.

In teoria, le dinamiche partecipative dei servizi della società dell’informazione avrebbero dovuto renderci ancora più liberi, più in grado di comprendere il mondo che ci circonda, grazie al patrimonio informativo che continuamente ci regalano, prima inimmaginabile anche per il più dotto dei dotti.

Del resto, se è vero, per citare Gaber, che “La libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione”, ci dobbiamo chiedere dove sia la nostra agognata libertà. ci troviamo, infatti, in una società dove la partecipazione è assoluta e i nuovi strumenti di comunicazione ci permettono di condividere con una libertà prima impensabile il nostro pensiero e reperire una mole inimmaginabile di informazioni con pochissimo sforzo.

Dov’è, quindi, che le promesse di libertà ed emancipazione sono state tradite?

A dispetto degli innegabili progressi che la rivoluzione del Web partecipativo ha apportato non si può, infatti, dire che si sia creata una maggiore libertà.

Al contrario, tutti noi, volenti o nolenti, ci troviamo sempre più integrati nei servizi della società dell’informazione e nelle dinamiche partecipative del Web 2.0 e non ne riusciamo più a fare a meno.

Molti di coloro che hanno vissuto e sperimentato la rivoluzione del Web hanno ottime ragioni per sentire, in realtà, traditi i loro sogni di libertà. Siamo sempre più impegnati a relazionarci attraverso social network da cui non ci riusciamo a sconnettere, a ricercare novità e informazioni attraverso motori di ricerca e a comperare online beni e servizi di cui prima non conoscevamo l’esistenza e che, adesso, sono diventati inspiegabilmente indispensabili e imprescindibili.

La connettività, nei suoi aspetti relazionali e partecipativi, riguarda tutti gli aspetti della nostra vita nelle sue dinamiche personali e professionali e tutti ci troviamo forzosamente connessi senza alcuna reale via di scampo.

Può essere che il prezzo del maggiore benessere di cui attualmente godiamo abbia richiesto il sacrificio della nostra libertà?

Da un lato, quasi tutte le persone fisiche si trovano ad avere un profilo social network, ad esempio su Facebook, LinkedIn, Twitter o altri social network; e, dall’altro, sempre più imprenditori offrono i propri beni e servizi mediante marketplace e altri servizi della società dell’informazione come, ad esempio, TripAdvisor o Amazon.

Sempre più persone, fisiche o giuridiche, inoltre, si trovano indicizzate all’interno di motori di ricerca: inserire un semplice parametro come nome e cognome può, infatti, produrre risultati che a loro volta riconducono a elementi riferiti alla persona ricercata come, ad esempio, un sito o un blog personale, foto personali condivise in Rete, un profilo social network o, ancora, articoli pubblicati, interviste rilasciate o articoli di giornale online dove la persona ha formato oggetto di cronaca e proprio attraverso questa simbiosi con i servizi della società dell’informazione si estrinseca il nostro corpo elettronico: la proiezione digitale all’interno della Rete del nostro corpo materiale.

Tutte queste tracce digitali di noi – che noi stessi in prima persona lasciamo  o che altri lasciano di noi – contribuiscono a consolidare e formare la nostra Web presence (o presenza sul Web), composta dei “pezzi di ciascuno di noi che sono conservati nelle numerosissime banche dati dove la nostra identità è sezionata e scomposta, dove compariamo ora come consumatori, ora come elettori, debitori, lavoratori, utenti dell’autostrada” (1).

Il Web 2.0, con le sue dinamiche partecipative, ha accelerato e amplificato  questo processo di astrazione del nostro corpo materiale in qualcosa di diverso, ibrido e prima inimmaginabile.

Pur senza raggiungere il Regno dei cieli, il nirvana o altri reami dell’esistenza, anzi forse per certi aspetti allontanandoci dagli aspetti più nobili della spiritualità più pura che in tempi passati era posta come una delle più grandi virtù, una parte sempre più significativa della nostra vita si svolge online.

Questo reame dell’esistenza non si trova, però, in un regno diverso o irraggiungibile ed è facilmente accessibile attraverso strumenti che sono banali come un dispositivo che si può connettere a Internet e una connessione Internet.

Il Regno dei cieli è davvero qui fra noi e accessibile a tutti?

È davvero così facile ascendere?

Davvero non è più necessario intraprendere percorsi ascetici o immergersi in attività contemplative o meditative per distanziarsi dalla realtà in cui viviamo per muoverci in un dominio più nobile dell’esistenza?

Ma, soprattutto, l’astrazione del nostro corpo materiale in un corpo elettronico ci nobilita davvero come vorremmo, dovrebbe o sarebbe giusto?

A ben vedere, lungi dal distanziarci dal mondo materiale, dai nostri desideri e dalle nostre paure, quanto avviene online influenza pesantemente le nostre dinamiche relazionali e professionali che si articolano offline.

Così come noi proiettiamo online una parte del corpo materiale, a mo’ di ombra digitale, una parte del nostro corpo elettronico proietta un’ombra materiale che si ripercuote, psicologicamente e materialmente, nel dominio dell’esistenza analogica.

Siamo davvero più liberi oppure siamo aggrovigliati in un miscuglio inscindibile di realtà inestricabili?

In questo contesto di inestricabilità fra corpo materiale e corpo elettronico, reame digitale e reame analogico, si inseriscono i servizi della società dell’informazione che influenzano e governano aspetti preponderanti e cruciali delle nostre vite.

Le dinamiche relazionali alla base del Web partecipativo che ha creato il  Web 2.0 sono, infatti, quasi integralmente miste e si basano su una sempre maggiore e crescente interconnessione fra il nostro corpo elettronico e il nostro corpo materiale. Si crea, pertanto, un’entità ibrida fatta di atomi e di bit, di molecole e di gigabyte.

I nostri desideri, ansie, paure e speranze arrivano a seguirci sia quando ci connettiamo che quando siamo sconnessi; sempre che sconnettersi sia, in realtà, possibile. A ben vedere, gli aspetti più importanti della nostra vita restano sottratti irrimediabilmente al nostro dominio proprio a causa delle  dinamiche che la partecipazione all’interno della vita online ci impone.

È evidente come i servizi della società dell’informazione basati sul Web  governino sempre di più la nostra vita personale e professionale e come non possiamo più fare a meno di questi, anche se spesso vorremmo sconnetterci, isolarci e sottrarci al continuo bombardamento di informazioni cui veniamo sottoposti.

Per questi motivi non siamo più realmente padroni delle nostre vite, ma sono le piattaforme digitali a garantire i nostri diritti fondamentali, a permettere alla nostra persona di esprimersi e a dare voce al nostro corpo elettronico: i nostri desideri finiscono in whishlist di cui i cybermediary diventano custodi, le nostre curiosità e segreti sono inseriti in motori di ricerca che le destrutturano e le indicizzano rendendole uniformi e privandole dell’unicità che noi pensavamo che avessero. Inoltre, la nostra voglia di esprimerci si articola in post condivisi attraverso social network, così come la nostra socialità oramai può prescindere dal bisogno di scendere in piazza e trovare luoghi fisici per socializzare ed esprimere le nostre idee e, di conseguenza, la coesione sociale sembra diventare sempre più tenue.

I servizi della società dell’informazione sono diventati, quindi, indispensabili per molte persone fisiche, che attraverso di essi si esprimono e si relazionano con gli altri, e per molte imprese, che li utilizzano per perseguire la propria attività economica.

Si pensi, in questo senso, all’importanza per una PMI di avere una propria web presence su Amazon o di essere adeguatamente indicizzata su
Google per ottenere un importante vantaggio competitivo sui propri concorrenti.

Alla luce del quadro tracciato si deve dare, quindi, risposta negativa alla nostra esigenza di libertà che appare sicuramente frustrata.

Molti diranno che questa è stata sacrificata sull’altare di qualcosa di più importante, come l’accesso alla conoscenza attraverso ricerche operate online, la possibilità di partecipare e dire la nostra, probabilmente anche quando forse sarebbe opportuno tacere, la possibilità di acquistare quello che vogliamo quando vogliamo e di vedercelo consegnato a casa senza che sia necessario uscire quando quasi certamente due passi e una boccata d’aria fresca non ci farebbero male.

Siamo, quindi, ora più che mai lontani dalla trascendenza cui aspiravano gli antichi, i filosofi e gli illuminati dei tempi passati?

In un certo senso, probabilmente no, in quanto il corpo elettronico, la nostra proiezione digitale, ci ha permesso di raggiungere a tutti gli effetti un reame diverso dell’esistenza, creando la cosa più simile all’anima che questa società materialista riesce a concepire.

Il nostro corpo elettronico vive senza mangiare, bere, dormire e necessita  solo di connessione e di dati. non è questa forse libertà?

Ma questo corpo è davvero nostro?

Possiamo davvero governare le sue  dinamiche che avvengono all’interno della Rete?

A ben vedere, abbiamo un controllo molto limitato sul nostro corpo elettronico, in quanto in Rete tutti sono liberi di dire la loro in una piazza dalla eco infinita che rimbomba nei secoli imperituri e di coinvolgerci in discussioni che non ci riguardano o a cui non siamo interessati.

Gli algoritmi dei motori di ricerca e dei social network a cui siamo iscritti ci bombardano o sottopongono alla nostra attenzione altre persone o prodotti che, forse e molto probabilmente, preferiremmo ignorare.

Non sono forse queste forme di violenza elettronica, tentativi subdoli ma al tempo stesso violenti di coartare la nostra libertà?

L’aggressione al nostro corpo elettronico cesserà solo quando le persone che cercano l’informazione vi perderanno ogni interesse, le Wiki non
verranno più aggiornate o i cybermediary, custodi dell’informazione, arriveranno a rimuoverla per gentile concessione o per un ordine di un’Autorità che, al momento, appare ancora superiore.

In realtà, a ben vedere, ora più che mai siamo prigionieri di una gabbia elettronica, custodita dai vari Amazon, Google e Facebook, che ci comprime e mai come ora siamo stati così poco padroni delle informazioni che ci riguardano. contrariamente a ogni ragionamento logico, siamo più liberi ma al tempo stesso più prigionieri e ora più che mai guardiamo il mondo come i prigionieri della caverna di Platone.

La risposta al paradosso logico secondo cui partendo da premesse vere e false al tempo stesso si producono conclusioni vere e contraddittorie fra loro si può dare nei seguenti termini: il Web partecipativo e i cybermediary hanno ribaltato il rapporto tradizionale della libertà che non è più una “libertà da qualcosa”, come ad esempio ingerenze indebite nella nostra sfera personale, ma una “libertà di fare qualcosa”, come commentare, condividere contenuti, criticare altri, acquistare con semplicità ciò che ci aggrada e vedercelo recapitato comodamente a casa.

In questo contesto, ciò che si pensa di noi offline viene proiettato online e  ciò che ci riguarda online ha precipitati nelle nostre dinamiche professionali e personali che si articolano offline.

Il quadro di interconnessione è, quindi, continuo, complesso e si autoalimenta e impone di rivoluzionare il modo attraverso cui noi pensiamo e ci relazioniamo con i servizi della società dell’informazione.

Queste nuove dinamiche relazionali personali e professionali e la sempre crescente integrazione fra ciò che avviene online e ciò che avviene offline lasciano aperti numerosi interrogativi:

Siamo davvero più liberi e felici?

Siamo davvero più colti, istruiti e consapevoli?

Riusciamo a distinguere ciò che avviene in Rete da ciò che avviene offline?

Siamo davvero in grado di distinguere la nostra ombra digitale dalla nostra ombra materiale che proietta la luce del sole?

Ai posteri l’ardua sentenza”.

Giacomo Conti

 

Per maggiori informazioni sul testo v. https://www.maggiolieditore.it/lineamenti-di-diritto-delle-piattaforme-digitali-volume-2.html

 

(1) Salviamo il corpo, di Stefano Rodotà, stralcio dell’intervento al convegno su “Trasformazioni del corpo e dignità della persona”, Roma, 4 maggio 2005.

Autore: Giacomo Conti

Editore: Maggioli Editore

Pubblicazione: Ottobre 2020 (I Edizione)

ISBN / EAN 8891643452 / 9788891643452

Collana: Collana Legale

 

Prefazione: Il World Wide Web come la spezia di Dune. L’estensione della conoscenza e l’annullamento dello spazio tra realtà e fantascienza. Gilde spaziali e cybermediary.

L’estensione della conoscenza e l’annullamento dello spazio tra realtà e fantascienza. Gilde spaziali e cybermediary.

Siamo nell’Universo di Dune creato da Frank Herbert nel 1965, ambientato nell’Anno Domini 10191: l’universo conosciuto è governato dall’imperatore Padishah Shaddam IV e, per l’umanità, la più preziosa e vitale sostanza dell’u-niverso è il Melange, la spezia.

La spezia allunga il corso della vita.

La spezia aumenta la conoscenza.

La spezia è essenziale per annullare lo spazio.

La potente Gilda spaziale e i suoi navigatori, che la spezia ha trasformato nel corso di oltre 4000 anni, usano il gas arancione della spezia che conferisce loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè, di viaggiare in qualsiasi parte dell’universo senza mai muoversi.

La spezia esiste su un solo pianeta nell’intero universo conosciuto. Un arido e desolato pianeta con vasti deserti.

Il pianeta Arrakis è conosciuto anche come Dune (1).”

Senza troppa speculazione e inventiva e togliendo l’aspetto esotico che caratterizza il celeberrimo romanzo: l’umanità, correva l’anno 1989, inventava quanto più di simile esiste alla spezia, ossia la Rete. Il World Wide Web, per come noi lo conosciamo, è al pari della spezia di Frank Herbert un formidabile strumento che in poche decadi ha rivoluzionato i rapporti economici e sociali, cambiando profondamente la società in cui viviamo.

A differenza della spezia, tuttavia, è estremamente facile accedere al World Wide Web: è, infatti, sufficiente munirsi di un dispositivo collegato alla Rete e di una connessione Internet offerta dagli operatori telefonici a costi sempre più economici.

Lungi dall’esistere su un solo remoto e desolato pianeta, sempre più persone sul globo terrestre hanno accesso a questa formidabile tecnologia da cui sono sempre più dipendenti.

La Rete, al pari del Melange, assuefà chi vi si connette che ne diventa sempre più dipendente, a prescindere dal fatto che la connessione al Web sia operata per esigenze personali oppure legate allo svolgimento di un’attività di impresa.

Nell’Universo di Dune, solamente la Gilda Spaziale detiene il monopolio sul commercio della spezia e anche questo dato si presta a un’analogia con il nostro universo.

Nel nostro universo, gli intermediari digitali, al pari della Gilda Spaziale, hanno un monopolio di fatto sui servizi della società dell’informazione nell’ambito dei quali dispensano benefici, punizioni ed erogano giustizia sulla base di termini e condizioni che loro stessi hanno stabilito. Si pensi a Google per i servizi di motori di ricerca, ad Amazon per l’E-commerce o, ancora, a Microsoft per i sistemi operativi e gestionali per consumatori e imprese.

La Rete ha cancellato precedenti confini e limiti dettati dallo spazio fisico e ha costruito modalità nuove di produzione e utilizzazione della conoscenza al pari della spezia. I rapporti di produzione, distribuzione e consumo sono stati, quindi, rivoluzionati dalle fondamenta proprio grazie alla possibilità che la Rete offre di condividere informazioni, abbattere spazi e creare occasioni di contatti fra persone fisiche e fra imprese.

L’annullamento dello spazio fisico ha dato luogo ai fenomeni, in contraddizione solo apparente, di disintermediazione e di intermediazione online e ha permesso la concentrazione di un potere economico prima inimmaginabile nelle mani di pochissimi cybermediary che gestiscono piattaforme online il cui utilizzo è diventato fondamentale nelle nostre vite.

Il potere economico di cui dispongono i cybermediary, lungi dal rappresentare sempre un’opportunità per i destinatari dei servizi, può essere utilizzato abusivamente in danno agli utenti commerciali e con effetti non necessariamente benefici per i consumatori. In questo quadro di sviluppo tecnologico ed economico è entrato in crisi il ruolo tradizionale dei cybermediary: prima fornitori passivi di un servizio tecnico, ora più che mai si trovano ad avere un ruolo attivo nella gestione dei contenuti caricati e condivisi dai propri utenti.

Il cybermediary, oltre ad avere un enorme potere economico, diventa anche giudice ultimo e supremo all’interno dei servizi che gestisce e le sue decisioni incidono significativamente sulle sfere personali e professionali degli utenti che si servono dei suoi servizi.

Inoltre, la Rete ha riequilibrato il rapporto a favore del consumatore, accordandogli un potere prima inimmaginabile: condividere feedback, recensioni, valutazioni in merito alle proprie esperienze di consumo.

Come la spezia ha mutato nel fisico e nella psiche i navigatori, i servizi basati sulla Rete hanno mutato profondamente la figura stessa del consumatore che non è più un mero acquirente passivo di beni o servizi.

Si è assistito, in questo quadro complesso, alla nascita della nuova figura del prosumer digitale, che è una persona fisica sempre più informata che acquista in rete beni e servizi e che condivide, tramite i servizi della società dell’informazione, le proprie esperienze di consumo, incidendo in maniera sostanziale sull’asimmetria informativa. Lo scambio di informazioni sul Web 2.0, infatti, opera sulla base di dinamiche che si fondano su una partecipazione attiva non solo dei fornitori di servizi della società dell’informazione o degli operatori economici, ma anche dei consumatori stessi.

Si aggiunga, peraltro, che di fronte alla velocità attraverso la quale le informazioni circolano in rete il rimedio giudiziale ha perso di centralità, essendo i formalismi del processo civile e della tutela giudiziale incompatibili con la necessità di tutela e presidio immediata dell’imprenditore in rete.

Molte vertenze sono, pertanto, affidate a strumenti di Alternative Dispute Resolution che presentano vantaggi in termini di costi ed efficienza rispetto al tradizionale rimedio giudiziale o vengono gestite con sistemi che il cybermediary ha creato e plasmato. Nonostante l’introduzione del Regolamento Platform2Business, la tutela apprestata dal Regolamento (UE) 2019/1150 risulta molto più formale rispetto al quadro dettato, ad esempio, in tema di tutela e protezione del consumato-re (2) o della persona fisica nell’ambito dei trattamenti di dati personali che la riguardano, avente un’ampia, corposa e sostanziale tutela all’interno del General Data Protection Regulation (3).

Pertanto, il nuovo impianto normativo risulta indicativo della persistente scarsa sensibilità delle Istituzioni europee alle esigenze di tutela delle imprese che si trovano in posizione di dipendenza economica verso i cybermediary.

Nel nostro universo come in quello di Dune, il potere non è quindi distribuito in ugual misura e, sebbene a differenza della spezia la Rete sia accessibile agevolmente, la distribuzione del potere attraverso i servizi online ha creato un vero e proprio feudalesimo digitale.

La rete allunga il corso della vita.

La rete aumenta la conoscenza.

La rete è essenziale per annullare lo spazio.

I potenti cybermediary e i loro navigatori, che la rete ha trasformato nel corso di poche decadi, usano i servizi basati sulla rete che conferiscono loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè, di viaggiare in qualsiasi parte dell’universo senza mai muoversi.

La rete esiste intorno a noi e siamo noi”.

Giacomo Conti

 

Per informazioni sul testo v. https://www.maggiolieditore.it/lineamenti-di-diritto-delle-piattaforme-digitali-volume-1.html

 

(1) Si riporta la citazione della Principessa Irulan Corrino, figlia dell’imperatore Padi-shah Shaddam IV e futura sposa del protagonista del romanzo Paul Atreided Muad’Dhib. La citazione è tratta non dal testo, ma dal film di Dune scritto e diretto da David Linch nel 1984 e basato sul celeberrimo romanzo di Frank Herbert del 1965.

(2) V. direttiva 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, sui diritti dei consumatori, recante modifica della direttiva 93/13/CEE del Consiglio e della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 85/577/CEE del Consiglio e la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.

(3) Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati).

di Giacomo Conti

 

Per gestire a norma di Legge un servizio di e-commerce è necessario essere trasparenti verso i consumatori ed evitare comportamenti che possono realizzare pratiche commerciali scorrette, ossia idonee a indurre il consumatore “medio” ad operare scelte che commerciali e di consumo che, laddove l’informazione fosse stata completa e trasparente, non avrebbe preso.

I professionisti sono tenuti a mantenere standard di diligenza particolarmente elevati, tali da consentire al consumatore di determinarsi consapevolmente e liberamente in un mercato concorrenziale.

L’omessa indicazione nel prezzo pubblicizzato all’inizio del contatto, di tutti gli oneri non evitabili che sono successivamente addebitati al consumatore è sicuramente una pratica commerciale scorretta.

Ugualmente, integrano pratiche commerciali scorrette l’aver fornito ai consumatori informazioni non veritiere sui tempi di consegna dei prodotti offerti, l’aver consegnato prodotti diversi da quelli ordinati, ovvero giunti a destinazione oltre i tempi pattuiti, l’aver opposto ostacoli all’esercizio di diritti contrattuali da parte dei consumatori come la difficoltà di contattare i fornitori del servizio o la mancata sostituzione del prodotto diverso da quello ordinato, l’avere invitato all’acquisto di prodotti a un determinato prezzo senza rivelare l’esistenza di prevedibili ragioni che avrebbero impedito la consegna degli stessi a quel prezzo.

Ugualmente, la semplice indicazione “composizione tipo”, se non indicata in tutti i suoi elementi e in più accostata ad una illustrazione fotografica che raffigura una composizione completa può essere considerata una pratica commerciale scorrettezza.

Se al consumatore non vengono fornite informazioni puntuali, precise e concrete il consumatore può essere indotto a credere che la composizione tipo si riferisca all’immagine in foto ed essere, conseguentemente, indotto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Integra pratica commerciale scorretta, quindi, anche il non essere in grado di fare fronte a tutte le richieste di acquisto da parte dei consumatori.

Per contro, la scelta del metodo di adesione del consumatore all’offerta mediante meccanismo opt out anziché opt in, dato che la prassi non incide in misura apprezzabile sul comportamento economico del consumatore, non è, invece, una pratica scorretta in quanto non incide sulla possibilità del consumatore di autodeterminarsi.

Nell’ottica di tentare di massimizzare i profitti è facile incorrere, anche inconsapevolmente, in comportamenti scorretti che comportano significative conseguenze per l’operatore economico che le ha realizzate.

di Giacomo Conti edito: Il Foro Padano – Rivista di giurisprudenza e di dottrina – Fabrizio Serra Editore, Pisa – Roma – N. Rivista 2/2016

Sommario: 1. Premessa storica: L’evoluzione del concetto di abuso del diritto dal diritto romano al caso Renault. 2. Le diverse figure di abuso del diritto nell’ordinamento italiano ed europeo. 3.a L’operatività divieto di abuso di dipendenza economica nella legge sulla subfornitura e nei contratti di terzo tipo in generale. 3.b I contratti di terzo tipo e le altre figure negoziali asimmetriche nel Codice del Consumo e nel Codice Civile. 4.a. Il divieto di subfornitura come norma imperativa e le conseguenze dell’abuso di dipendenza economica: una nullità di protezione. 4.b. La pronuncia delle Sezioni Unite in materia di divieto di abuso di dipendenza economica. L’applicabilità generale del divieto di abuso di dipendenza economica ad altre figure negoziali. 4.c. I recenti approdi della giurisprudenza di merito in materia. Il caso. 4.d. L’apparente distonia dell’impostazione seguita dalla giurisprudenza di merito rispetto alle posizioni prese dalle Sezioni Unite. 5. Le questioni ancora aperte. 5.a Il presupposto della dipendenza economica e la conseguente operatività del divieto di abuso di dipendenza economica ai soli contratti di terzo tipo. 5.b. Il divieto di abuso di dipendenza economica come figura giuridica distinta ed autonoma rispetto alla più generale fattispecie di abuso del diritto.

Abstract: Dottrina e giurisprudenza hanno spesso confuso il concetto di abuso del diritto con quello di abuso di dipendenza economica.E’ stato, infatti, erroneamente ritenuto che i due istituti fossero in rapporto di genere a specie quando, in realtà, essi hanno ambiti di operatività ed applicazione diversi e rispondono a differenti esigenze di tutela. L’abuso del diritto opera sul piano del rapporto in funzione correttivo dell’esercizio diritto e risponde ad esigenze di tutela di controparte, mentre il divieto di abuso di dipendenza economica ha alla base logiche di tutela meta-individuali volte a proteggere l’imprenditore in posizione di svantaggio economico. Esso è, pertanto, una figura generale, ma la cui applicazione va limitata ai soli contratti di terzo tipo. L’art. 9 della Legge sulla subfornitura configura, infatti,  un’ipotesi di nullità espressiva di un concetto di ordine pubblico economico che può operare, nell’ambito di altre figure negoziali, come nullità di virtuale di protezione.

  1. Premessa storica: L’evoluzione del concetto di abuso del diritto dal diritto romano al caso Renault.

Il concetto di abuso del diritto affonda le proprie radici nel diritto romano classico. Gli antichi pretori attraverso il c.d. ius honorarium arrivarono, infatti, ad elaborare il concetto di exceptio doli generalis[1] per paralizzare una pretesa creditoria formalmente legittima ma, in concreto, iniqua[2].

Il suddetto rimedio rimaneva tuttavia di portata eccezionale ed il brocardo qui suo iure utitur neminem laedit, tipico del diritto romano classico, non assurgeva, quantomeno in Italia, a pilastro dell’ordinamento.

L’applicazione formalistica e rigorosa di suddetto principio aveva come conseguenza logica e giuridica la necessaria cedevolezza di ogni posizione passiva a fronte di una legittima pretesa creditoria, a prescindere dal contenuto e, soprattutto, dalla meritevolezza di questa.

Una certa dottrina francese dell’inizio del secolo scorso iniziava, tuttavia, a teorizzare la possibilità di configurare il divieto di abuso del diritto come una vera e propria clausola generale dell’ordinamento[3].

La dottrina italiana maggioritaria era, invece, ferma nel negare la possibilità di accordare al debitore una qualunque forma di tutela contro i comportamenti abusivi in sede di esecuzione della prestazione[4].

L’abuso del diritto non trovava, pertanto, cittadinanza né nel Codice civile italiano del 1942[5] e nemmeno si affermava come istituto di elaborazione pretoria.

Tanto la dottrina quanto la giurisprudenza ritenevano, infatti, che l’abuso di una situazione creditoria di vantaggio esprimesse un mero concetto di natura etico-morale privo di rilevanza giuridica e, per gli effetti, non tutelabile.

Ne derivava quindi che colui che abusava di un diritto, o di una qualunque posizione giuridica di vantaggio, veniva considerato meritevole solo di biasimo e non responsabile giuridicamente per la propria condotta[6].

Solo recenti i approdi giurisprudenziali dell’ultimo decennio, anche in ragione dell’influenza esercitata dal diritto europeo[7], hanno operato una rivoluzione copernicana della materia, superando le impostazioni tradizionali radicatesi in dottrina e giurisprudenza.

Il concetto di abuso del diritto ha, infatti, iniziato ad affermarsi tanto nell’ordinamento europeo quanto in quello nazionale, evolvendosi parallelamente ed autonomamente.

Anche il sistema CEDU prevede, del resto, una particolare ipotesi di abuso del diritto all’art. 54 della Convenzione[8].

In Italia l’elaborazione pretoria è stata tuttavia lenta ed ondivaga e la figura del divieto di abuso del ha acquistato una valenza generale solo con il celeberrimo caso Renault[9]. In questa sede la Suprema Corte ha identificato tutti gli elementi essenziali e costitutivi della fattispecie di abuso generalizzandone la figura.

Assume rilevanza giuridica la condotta di abuso posta in essere dal titolare di un diritto quando questi, pur avendo la possibilità di realizzare i propri interessi attraverso una pluralità di modalità non predeterminate, decida di fare valere la propria posizione giuridica a mezzo di condotte formalmente rispettose della cornice attributiva del diritto – almeno in apparenza-, ma che sono, in concreto, censurabili perché contrastanti con i generali obblighi di buona fede e correttezza. Occorre, nello specifico, che l’esercizio del proprio diritto realizzi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio ottenuto dal titolare del diritto ed il sacrifico sostenuto dalla controparte.

La giurisprudenza successiva si è consolidata sulle posizioni prese dalla Sez. III Cass. nel 2009 ricollegando la figura di divieto di abuso del diritto alla violazione degli obblighi di buona fede oggettiva in materia di obbligazioni e contratti[10].

La buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra.

L’ambito operativo di detto divieto opera indipendentemente rispetto sia agli obblighi predeterminati in sede di accordo che al divieto di cagionare ad altri un danno ingiusto.

La responsabilità aquiliana presuppone, infatti, un comportamento doloso o colposo, mentre l’abuso si configura, per contro, solamente in un comportamento oggettivamente contrario ai doveri di buona fede e di correttezza che prescinde dall’esistenza di un elemento obiettivo.

La buona fede ha assunto, pertanto, una funzione integrativa del rapporto negoziale ed assurge, non già a metro di valutazione dell’adempimento, bensì a regola obiettiva di condotta che determina, in concreto, il comportamento che le parti devono tenere in sede di esecuzione della prestazione[11].

Ne consegue, pertanto, che il creditore è tenuto al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico[12].

Dottrina e giurisprudenza hanno, di fatto, costituzionalizzato il canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, che ha trovato la propria copertura nel dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost..

Il precetto costituzionale opera, infatti, al pari delle norme del Codice Civile (artt. 1175 e 1375 c.c.), come clausola generale ed immediatamente precettiva, da cui discende il divieto di abuso del diritto. L’esecuzione del contratto secondo buona fede è espressione, infatti, di esigenze di protezione e di tutela della sfera, patrimoniale ed anche personale, della controparte negoziale[13].

Durante l’esecuzione del rapporto obbligatorio le parti non si devono limitare, dunque, ad assicurare la soddisfazione della pretesa creditoria, ma devono, altresì, tutelare tutte le posizioni giuridiche di controparte su cui il contratto incide.

La giurisprudenza è infatti giunta ad affermare che il criterio della buona fede costituisce un vero e proprio strumento attraverso il quale il giudice può controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi[14].

  1. Le diverse figure di abuso del diritto nell’ordinamento italiano ed europeo.

Il divieto di abuso del diritto è, pertanto, una figura di valenza generale che si presenta in differenti declinazioni.

Il divieto di abuso del diritto non produce, infatti, il solo effetto di paralizzare la pretesa attorea, come l’exceptio doli generalis, ma accorda rimedi diversi a seconda della situazione giuridica lesa con il comportamento abusivo[15].

La giurisprudenza, sia nazionale che europea, ha individuato, infatti, numerose fattispecie di abuso del diritto[16] di cui si indicheranno in prosieguo, a titolo meramente esemplificativo, le ipotesi più significative.

Nel diritto societario, l’abuso della regola di maggioranza, altrimenti detto abuso o eccesso di potere, è ritenuta dalla costante giurisprudenza come causa di annullamento delle deliberazioni assembleari ove queste non rispondano concretamente ad alcun interesse della società.

Si mira, infatti, ad evitare che il voto espresso dai soci di maggioranza sia ispirato al perseguimento di interessi antitetici rispetto a quelli riconducibili alla compagine sociale nel suo complesso.

Non occorre, dunque, che l’abuso si concretizzi necessariamente in una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza[17].

In tema di fideiussione, il generale principio etico-giuridico di buona fede svolge, invece, una funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese creditorie. Su ciascuna delle parti contrattuali grava, infatti, il dovere di tutelare l’utilità e gli interessi dell’altra, sempre quando ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori[18].

In tema di esercizio di diritti potestativi, e nella specie del recesso, è consentito al giudice di merito di sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto e di liquidare il danno patito in ragione dell’illegittimo esercizio del diritto di recesso[19].

Di particolare rilevanza è, altresì, la posizione presa dalla Suprema Corte in tema di abuso di strumenti processuali.

La giurisprudenza ha, infatti, escluso che il creditore titolare di una determinata somma di denaro derivante da un unico rapporto obbligatorio possa frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo.

Detta scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore aggrava infatti inutilmente la posizione del debitore e si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede – che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento -, sia con il principio costituzionale del giusto processo.

La parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria arriva infatti a tradursi in un vero e proprio abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale[20].

Tutte queste fattispecie, pur presentano caratteri eterogenei, hanno tutte in comune gli elementi costitutivi individuati dalla Sez. III della Suprema Corte nel caso Renault. In particolare tutte le condotte abusive sopra indicate si caratterizzano per il loro carattere distorsivo della legge attributiva del diritto che, senza essere formalmente e direttamente violata, risulta, nella sostanza elusa.

Tutte le sopraesposte condotte abusive sono, infatti, finalizzate a premettere all’autore di ottenere un indebito vantaggio incompatibile con la ratio sostanziale della norma attraverso un comportamento apparentemente lecito volto a coprire il reale intendo dell’agente ma non comportano l’invalidità del negozio.

L’atto negoziale alla base del rapporto rimane, pertanto, valido ed idoneo a produrre i propri effetti, ma esigenze di giustizia equitativa impongono di introdurre, in sede di esecuzione della prestazione, correttivi al comportamento abusivo che limitano l’efficacia del comportamento abusivo.

3.a. L’operatività del divieto di abuso di dipendenza economica nella legge sulla subfornitura e nei contratti di terzo tipo in generale.

Il divieto di abuso di dipendenza economica trova espresso riconoscimento normativo nell’art. 9 della Legge 18 giugno 1998, n. 192 di “Disciplina della subfornitura nelle attività produttive” e non è frutto di elaborazione pretoria, ma di una precisa scelta del legislatore orientata a difendere la parte debole del rapporto di subfornitura, ossia il subfornitore.

La suddetta disposizione di legge fa espresso divieto di abuso, da parte di una o più imprese, dello stato di dipendenza economica nel quale si trova un’impresa cliente o fornitrice.

La norma dà poi una precisa definizione di dipendenza economica stabilendo che si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi.

La disposizione di legge stabilisce inoltre che, ai fini di valutare se sussista o meno dipendenza economica, occorre tenere conto anche della reale possibilità, per la parte che abbia subito l’abuso, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.

Il secondo capoverso della norma stabilisce, altresì, che l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare e nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie ovvero nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.

Al terzo ed ultimo comma la disposizione normativa sanziona espressamente il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica con la nullità.

Il divieto di abuso di dipendenza economica non sembra riconducibile in nessuna delle figure di abuso del diritto.

La norma pone, dunque, problemi relativi al suo effettivo campo di applicazione, posto che il suo carattere speciale la rende, almeno apparentemente, insuscettibile di applicazione analogica.

In secondo luogo  non è così facile stabilire se questa detti obblighi di condotta oppure abbia carattere imperativo e sia pertanto espressiva di un vero e proprio divieto.

3.b I contratti di terzo tipo e le altre figure negoziali asimmetriche nel Codice del consumo e nel Codice Civile.

L’analisi del divieto di abuso di dipendenza economica non può prescindere da un esame dei cosiddetti contratti di terzo tipo[21], tipologia generale di figure negoziali entro la quale è inserito il contratto di subfornitura.

Si intende per contratto di terzo tipo un negozio concluso tra imprenditori che si caratterizza, sotto il profilo oggettivo, per un’asimmetria di potere economico fra i contraenti.  Per realizzare la condizione di dipendenza economica occorre, infatti, che un contraente si trovi in posizione di soggezione di fronte al potere contrattuale del contraente forte, il quale è in grado di influenzarne le scelte economiche e di gestione.

Seppure il Codice civile tipizza figure negoziali asimmetriche fra cui spiccano la locazione[22], il contratto di lavoro subordinato[23] e di trasporto[24], dette disposizioni di legge non hanno valenza generale e, pertanto, la loro disciplina non è estensibile analogicamente ad altre figure negoziali simili[25].

Un discorso diverso va operato, per contro, per i contratti di consumo (i c.d. contratti di secondo tipo) [26]  e fra imprenditori (i c.d. contratti di terzo tipo), i quali non pongono in rapporto di specialità rispetto alle figure codicistiche, bensì di autonomia.

Lungi dal configurare figure negoziali isolate, essi identificano vere e proprie tipologie negoziali caratterizzate da vere e proprie asimmetrie strutturali e fisiologiche, nel primo caso informative e nel secondo economiche.

I contratti conclusi con il consumatore sono le ipotesi dove l’asimmetria negoziale è più manifesta

ed essi sono stati, pertanto, oggetto di numerosi studi in giurisprudenza e dottrina.

Un’attenzione minore hanno, invece, ricevuto i contratti fra imprenditori che, a dispetto della loro crescente rilevanza nella prassi, non hanno formato oggetto né di una tutela organica in sede legislativa e sono stati relativamente trascurati dalla dottrina. Del resto nemmeno la giurisprudenza, come si vedrà meglio nel prosieguo, sembra avere precisi e definiti canoni ermeneutici idonei ad identificare la reale portata delle suddette figure negoziali.

Appare, dunque, doveroso operare in questa sede uno sforzo ricostruttivo del quadro complessivo della materia al fine di ricostruire una tutela organica dell’imprenditore debole.

Vi sono tre disposizioni normative che meritano necessaria menzione:

  • il sopra citato art. 9 della Legge in materia di subfornitura, –
  • l’art. 3 l. 6 maggio 2004, n 129
  • ed infine l’art. 7 del Decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 di attuazione della direttiva 2000/35/CE, nella sua versione integrata dal D. Lgs. 9 nov. 2012, N. 192 sembrano, infatti accomunate dalla stessa ratio di tutela.

L’art. 3 l. 6 maggio 2004, n 129 sull’affiliazione commerciale rubricato “Forma e contenuto del contratto” stabilisce espressi requisiti, di forma e di sostanza a favore della parte debole, ossia l’affiliato[27].

La suddetta norma ha carattere solo apparentemente dispositivo in quanto alla loro sua violazione è ricollegata una vera e propria nullità di protezione.  Certa dottrina ritiene, infatti, che la violazione di dette norme integri un’ipotesi di nullità strutturale per mancanza dell’oggetto[28].

Anche l’art. 7 del Decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 di attuazione della direttiva 2000/35/CE, nella sua versione integrata dal D. Lgs. 9 nov. 2012, N. 192, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, prevede espressamente che le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore[29].  Al secondo capoverso viene poi stabilito un regime di rilevabilità d’ufficio di dette invalidità avuto riguardo a tutte le circostanze del caso[30].

Le norme esaminate, che si applicano da un lato ai contratti fra imprese, sono, pertanto, ispirate ad evidenti ed uniformi esigenze di tutela della parte contrattualmente debole.

Si può ritenere pertanto che esse, a dispetto del loro carattere apparentemente dispositivo, comminino la nullità dell’atto come sanzione per la loro violazione ed abbiano, pertanto, carattere imperativo.

Del resto una norma di condotta non appresterebbe una tutela sufficiente in quanto la parte contrattualmente debole troverebbe solo una tutela correttiva sul piano del rapporto ed i terzi estranei al vincolo si troverebbero irrimediabilmente pregiudicati da detto atto lesivo.

Le posizioni giuridiche dell’impresa debole possono essere, dunque, adeguatamente tutelate solo da norme imperative di divieto, in un’ottica non troppo dissimile da come avviene per i contratti di consumo.

4.a. Il divieto di subfornitura come norma imperativa e le conseguenze dell’abuso di dipendenza economica: una nullità di protezione.

Il primo problema da porsi in materia di divieto di abuso di dipendenza economica verte intorno alla natura dell’art. 9 della Legge in materia di subfornitura.

Occorre, in particolare, verificare se detta disposizione configuri una vera e propria norma di validità oppure se si tratti di una mera norma di comportamento idonea ad incidere non sul piano della validità dell’atto ma solo su quello degli effetti.

Sebbene il patto abusivo, ove questo non sia posto in essere attraverso un atto unilaterale[31], in genere afferisce al momento esecutivo del regolamento contrattuale di subfornitura e non nel momento genetico dello stesso, ciò non è bastevole a ritenere che l’art. 9 stabilisca una mera regola di condotta.

Il comportamento abusivo, stando al dato normativo, comporta infatti la nullità del patto abusivo. La sanzione consiste deve consistere, pertanto, non già in un  mero rimedio correttivo o risarcitorio, come nel caso di violazione delle norme di buona fede e correttezza, ma in una vera e propria nullità che privi ab origine di effetti il comportamento abusivo.

A dispetto del nomen iuris dato dal legislatore alla disposizione normativa, il divieto di abuso di dipendenza economica configura, in realtà, una vera e propria norma di divieto ed essa assume, pertanto, carattere imperativo.

La condotta abusiva si pone, infatti, in rapporto di diretta violazione di una norma imperativa di divieto e non configura, pertanto, un’ipotesi di abuso del diritto.

Se l’obbligo di buona fede oggettiva costituisce un autonomo dovere giuridico, si riferisce ad un generale principio di solidarietà sociale[32], l’art. 9 della legge in materia di subfornitura è, invece, espressione di un interesse ancora più generale riconducibile al concetto di ordine pubblico economico.

La protezione dei diritti del consumatore, dell’utente o dell’impresa trova, infatti, la propria ratio in un dimensione macroeconomica e di interesse meta-individuale[33] ed abbraccia, pertanto, una sfera più ampia rispetto a quella del singolo consumatore leso.

Anche la Corte europea di giustizia ha messo, del resto, in luce come la tutela della parte contrattualmente debole assuma una dimensione necessariamente plurisoggettiva, anche alla luce di una corretta interpretazione degli artt. 4, comma 2º, lett. f) e 169 del Tfue[34].

La tutela apprestata nel caso di violazione di norme imperative, è infatti necessariamente più incisiva rispetto a quella accordata nelle ipotesi di abuso del diritto[35].

L’art. 9 della legge in materia di subfornitura lungi, dall’operare sul piano degli effetti, esplica la propria efficacia direttamente sul piano della validità dell’atto abusivo, il quale è, di diritto, nullo.

Del resto se i rimedi accordati in caso di abuso del diritto incidono solo sul piano degli effetti dell’atto, in presenza di un abuso di dipendenza economica, il legislatore ha configurato una vera e propria nullità di protezione a vantaggio del subfornitore.

L’improduttività di effetti, a differenza che nelle più generali fattispecie di abuso del diritto è dunque, in questo caso, una mera conseguenza dell’invalidità del patto abusivo.

Il concetto stesso di nullità, anche nelle ipotesi speciali di nullità relative di protezione, esprime un disvalore sociale diverso e maggiore rispetto a quello delle norme di condotta.

La nullità è, infatti, necessariamente comminata come sanzione ove vengano lesi interessi generali dell’ordinamento che possono essere tipizzati in norme imperative oppure derivare da principi fondamentali dell’organizzazione sociale, che trovano la loro espressione nelle clausole generali dell’ordinamento[36].

La nullità del patto abusivo è, pertanto, opponibile erga omnes, la violazione di una norma di condotta, per contro, non incide su posizioni giuridiche di terzi che, in buona fede, abbiano fatto affidamento sull’apparente validità ed efficacia dell’atto abusivo.

Affinché si possa configurare una condotta di abuso del diritto occorre che una norma attributiva di un diritto venga strumentalizzata per raggiungere fini ritenuti non meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, mentre la violazione di un divieto formale comporta la nullità dell’atto posto in essere in violazione diretta della norma imperativa[37].

4.b. La pronuncia delle Sezioni Unite in materia di divieto di abuso di dipendenza economica. L’applicabilità generale del divieto di abuso di dipendenza economica ad altre figure negoziali.

Seppure l’abuso di dipendenza economica non possa ritenersi un’ipotesi di abuso del diritto in senso stretto, ciò non vuole dire che essa non possa aprioristicamente operare come clausola generale dell’ordinamento anche perché il principio generale alla base delle invalidità negoziali è quello delle nullità virtuali.

La Suprema Corte ha infatti, giustamente, ritenuto che l’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192 del 1998 configuri una fattispecie di applicazione generale e che pertanto esso possa prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura.

Seppure questo divieto può operare, per giurisprudenza consolidata e costante, al di fuori dei contratti di subfornitura esso non può prescindere dall’esistenza di una situazione di dipendenza economica, che può essere, comunque, presunta anche sulla base degli elementi che la stessa norma individua al di fuori del ricorre di una fattispecie di subfornitura.

In secondo luogo occorre che il comportamento abusivo sia stato posto in essere realizzando uno significativo squilibrio di diritti e di obblighi e, questo tratto sembra, tuttavia, accomunare l’art. 9 ad un’ipotesi tipizzata di divieto di abuso del diritto.

Tuttavia nemmeno questo elemento può ritenersi dirimente al fine di stabilire se si versi in ipotesi di nullità testuale ovvero di abuso del diritto, posto che molte ipotesi di nullità testuali – si pensi all’abuso di posizione dominante disciplinato dall’art. 102 TFUE – presuppongo la realizzazione di un comportamento posto in essere realizzando un significativo squilibrio di poteri.

In ultimo occorre che i rapporti commerciali fra imprese siano regolati alla base da un contratto in quanto il dato letterale dell’art. 9, comma terzo commina espressamente la nullità del “patto che realizza l’abuso”.

Il divieto di abuso di dipendenza economica, del resto, non caratterizza solamente il contratto di subfornitura, ma, come hanno evidenziato alcuni autori[38], accomuna diverse figure negoziali che rientrano nell’ambito dei contratti terzo tipo[39], fra cui il contratto di affiliazione commerciale[40]. L’impostazione che conferisce a questa figura un ambito di operatività generale appare apprezzabile ed in sintonia con le esigenze di tutela della parte debole, che caratterizza in genere tutti i contratti asimmetrici; tuttavia, le ragioni alla base di tale impostazione ermeneutica non appaiono pienamente condivisibile.

Le Sezioni Unite hanno configurato, infatti, uno specifico rapporto di genere a specie fra l’art. 9 della legge sulla subfornitura ed il divieto di abuso del diritto[41].

Detta impostazione appare, tuttavia, non pienamente condivisibile in quanto essa non permette di valorizzare adeguatamente la rilevanza meta-individuale che deve assumere la tutela dell’imprenditore debole in un’ottica di correzione di quelle situazioni che la dottrina economica individua come “market failure[42].

4.c. I recenti approdi della giurisprudenza di merito in materia. Il caso.

Parzialmente divergente rispetto alle posizioni prese dalle Sezioni Unite sono le conclusioni cui è giunto il Tribunale di Milano in una recente pronuncia (Ord. Trib. Di Milano, Sez. VII Civ., del 03.01.2015, data dep. 05.01.2015, RG. 77739/2014).

Il giudizio cautelare in esame verteva sulla possibilità di applicare, ad un contratto di appalto di servizi, la disciplina relativa ai contratti di subfornitura e, nella specie, l’art. 9 in materia di divieto di abuso di dipendenza economica.

Il Tribunale di Milano ha rilevato, in primis, come la nozione di servizio fosse ontologicamente incompatibile con quella di subfornitura posto che, ai sensi dell’art. 1 della Legge 18 giugno 1998, n. 192, deve intendersi subfornitura il contratto con il quale un imprenditore si impegna a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente.

Appare, dunque, inconfigurabile  la possibilità di individuare un’ipotesi di subfornitura di servizi in quanto questa dilaterebbe eccessivamente il campo applicativo dell’art. 9. I servizi si possono, infatti, offrire ad un numero potenzialmente indeterminato di imprese ed appare, dunque, impossibile ravvisare un’ipotesi di dipendenza economica in quanto nulla impedisce all’appaltatore di offrire al altre imprese i propri servizi di pulizia. Per l’effetto, in presenza di un appalto di servizi, non si può mai ravvisare un’ipotesi di dipendenza economica.

In secondo luogo è stato provato come l’impresa ricorrente avesse la piena capacità di organizzare la propria attività di pulizia in totale autonomia rispetto alla committente ed anche detta situazione è stata ritenuta incompatibile con il concetto di dipendenza economica.

Parte appaltante aveva, infatti, esternalizzato il servizio di pulizia dei propri locali ad una ditta estranea alla propria compagine aziendale, che non risultava essere inserita né all’interno della propria organizzazione imprenditoriale, né del processo produttivo e nemmeno questa era cliente di parte resistente[43].

Il Tribunale di Milano ha, pertanto, ritenuto che “nello svolgimento di un contratto di appalto accade l’inverso (rispetto a quanto accade in un contratto di subfornitura): il concetto stesso di esternalizzazione di un servizio, tipico del contratto di appalto, postula che, determinati processi produttivi, escano dalla sfera del committente, attenendo alla sfera dell’appaltatore che si trova a gestire il rischio di impresa per quelle specifiche attività in piena autonomia.”

E’ stato, pertanto, inferito che la generale applicabilità del divieto di abuso di dipendenza economica debba ritenersi limitata ai soli contratti di terzo tipo i quali  postulano, appunto, un necessario squilibrio di rapporti fra gli imprenditori contraenti.

Le statuizioni del Tribunale sono poi state anche accolte e confermate anche dal Collegio in sede di reclamo del provvedimento.

4.d. L’apparente distonia dell’impostazione seguita dalla giurisprudenza di merito rispetto alle posizioni prese dalle Sezioni Unite.

La posizione presa dal Tribunale di Milano si presenta in realtà solo in apparente distonia rispetto agli approdi raggiunti dalle Sezioni Unite nel 2011.

Limitare l’operatività del divieto di abuso di dipendenza economica ai soli contratti di terzo tipo non vuole dire che l’art. 9 della legge in materia di subfornitura non sia suscettibile di applicazione analogica.

I “contratti di terzo tipo” non si pongono, infatti, in rapporto di genere a specie rispetto alle altre figure negoziali dell’ordinamento, ma rappresentano, invece, una categoria generale entro cui possono essere ricomprese molteplici figure negoziali, fra cui il contratto di affiliazione commerciale, i contratti di factoring, certe forme di leasing ed altri contratti atipici fra imprenditori che si caratterizzano per un’asimmetria di potere economico fra le parti.

Limitare l’operatività dell’art. 9 ai soli contratti di terzo tipo senza ricondurla nell’ambito del divieto di abuso del diritto, ma in un’ipotesi di nullità virtuale ha un duplice ordine di conseguenze.

In primis si riconosce autonomia ontologica e giuridica ai contratti di terzo tipo ed, in secundis, si assicura all’imprenditore debole una tutela più incisiva rispetto a quella che può derivare dai generali doveri di correttezza e buona fede.

  1. Le questioni ancora aperte.

5.a Il presupposto della dipendenza economica e la conseguente operatività del divieto di abuso di dipendenza economica ai soli contratti di terzo tipo.

Al fine di valutare se l’art. 9 sia applicabile oltre la legge in materia di subfornitura occorre appurare se il suo presupposto applicativo, ossia la presenza di uno stato di dipendenza economica fra due imprese, sia esclusivo dei soli di contratti di terzo tipo o possa caratterizzare anche altre figure negoziali.

La risposta al quesito è già in parte fornita dallo stesso art. 9 che dà una precisa definizione di dipendenza economica.

Il legislatore infatti ha espressamente stabilito che viene in essere una situazione dipendenza economica tutte le volte in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi in danno alla controparte contrattuale. La norma è, pertanto, sicuramente suscettibile di applicazione analogica in quanto la sua formulazione appare estremamente elastica e versatile e, per l’effetto, applicabile a diverse ipotesi atipiche.

Le Sezioni Unite del 2011[44] hanno fatto un’applicazione dei principi elaborati nel 2009 nel celeberrimo caso Renault che non appare del tutto condividibile e da cui la giurisprudenza successiva si è, almeno in parte, discostata[45].

Appare, in particolare, discutibile l’impostazione secondo la quale la figura di abuso di dipendenza di posizione economica si pone in rapporto di genere a specie rispetto alla più generale fattispecie di abuso del diritto[46].

Se da un lato è vero che l’art. 9, per la sua generica formulazione, ben si presta ad essere suscettibile di applicazione estensiva ed analogica al di fuori dei margini di operatività definiti dalla legge sulla subfornitura, appare per contro discutibile l’operatività della suddetta disposizione al di fuori dei contratti di terzo tipo o comunque in assenza di un’ipotesi di dipendenza economica[47].

E’ infatti indubbio come le esigenze di tutela della parte debole non possano essere limitate ai soli contratti di subfornitura, ma debbano essere estese a tutte le ipotesi dove vi è il rischio che l’imprenditore forte abusi della propria posizione di vantaggio in danno alla parte contrattualmente debole.

Detto risultato può essere, tuttavia, raggiunto individuandovi un’ipotesi di nullità virtuale di protezione.

Limitare l’applicabilità dell’art. 9 ai soli contratti di terzo tipo non implica il disconoscerne la valenza generale, ma solo dotare di rilevanza ontologica e giuridica, nonché di una tutela più incisiva, tipologie di negozi che, negli ultimi anni, hanno acquistato una sempre crescente rilevanza nella prassi creando figure negoziali socialmente tipiche.

5.b. Il divieto di abuso di dipendenza economica come figura giuridica distinta ed autonoma rispetto alla più generale fattispecie di abuso del diritto.

Il dato letterale dell’art. 9 parla espressamente di abuso, tuttavia, la stessa norma prevede, a livello sanzionatorio, una vera e propria nullità testuale come reazione al comportamento abusivo.

Il principale elemento di divergenza rispetto alla più generale figura di divieto di abuso del diritto è rappresentato dal fatto che, l’abuso di dipendenza economica, rappresenta una violazione diretta di una norma di legge imperativa di divieto, mentre l’abuso del diritto viene in essere quando una parte pone in essere un comportamento in violazione dei criteri generali di correttezza e buona fede oggettiva elusivo di una norma attributiva di un diritto.

Il divieto di abuso di dipendenza economica non può, pertanto, considerarsi una specie di abuso del diritto, a dispetto del nomen iuris che il legislatore ha dato alla norma, in quanto essa non presenta alcun elemento costitutivo delle fattispecie elusive.

Il divieto di abuso di dipendenza economica non si configura, infatti, come norma di condotta, bensì di validità dell’atto il quale è, ab origine, privo di effetti.

In senso contrario a questa impostazione depone, tuttavia, lo stesso dato normativo, seppure esso non possa ritenersi, da solo, elemento bastevole a qualificare la reale natura della condotta abusiva.

In secondo luogo, l’esigenza di estendere il più possibile l’applicabilità dell’art 9 della legge di subfornitura oltre l’ambito di applicazione testuale della legge sulla subfornitura[48], al fine di garantire la maggiore tutela possibile alla parte contrattualmente debole può essere maggiormente raggiunto ove detto divieto si configurasse come ipotesi di abuso del diritto.

[1] L’exceptio doli generalis, che opera come diniego di effetti all’esercizio del diritto, trova, per giurisprudenza costante la propria base normativa nell’art. 1375 c.c..

[2] Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1989, pag. 3.

[3] J. Charmont, L’abus de droit, in Rev. trim. droit civ., 1902, 113. Josserand, De l’abus des droit, Paris, 1905

[4] Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105; Ferri, L’autonomia privata, Milano, 1959, 302.

[5] Nella stesura definitiva del Codice civile del 1942 è stato estromesso l’art. 7 del progetto preliminare secondo il quale “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto”.

[6] M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, pag. 105 ss.

[7] Numerose sono le pronunce della Corte di Giustizia in materia di divieto di abuso del diritto di stabilimento e fiscale: tra le altre, Corte di Giustizia CE 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas e.a. c. Elliniko Dimosio e Dimosio et Organismos Oikonomikis Anasygkrotisis Epicheiriseon.

[8] L’articolo menzionato è rubricato “Divieto dell’abuso del diritto” e prevede che “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta”.

[9] Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106.

[10] F. Caringella, Studi di Diritto civile, II, Milano, 2005, 1984.

[11] C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, p. 502.

[12] Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 497 ss..

[13] Cass., Sez. I, Sentenza 1994, n. 3775; Cass, Sez I, Sentenza 1999,. n. 10511; Cass., Sez. Un., Sentenza 2005, n. 18128; Cass., Sez. III, Sentenza 2006, n. 13345.

[14] Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, in Riv. n. 23726.

[15]C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, p. 284.

[16]Vedi fra le tante Sentenza della Corte di giustizia del 21 febbraio 2006, Halifax, causa C-255/02, in Raccolta, 2006, p. I-1609 in materia di elusione fiscale.

[17] Cass., Sez. 1, Sentenza 12 dicembre 2005, n. 27387 in Riv. N. 585532.

[18] Cass., Sez. 1, Sentenza 15 ottobre 2012, n. 17642  in Riv. 624747.

[19] Cass., Sez. 3, Sentenza 18 settembre 2009, n. 20106.

[20] Cass., Sez. Un, Sentenza del 15 novembre 2007, n. 23726 in Riv. 599316.

[21] G. Chinè – M. Frattini –A. Zoppini, Manuale di diritto civile, IV, Roma, Nel diritto editore, p. 1491 ss.

[22] L’art. 1579 c.c. in tema di limitazione della responsabilità del locatore stabilisce espressamente che: “Il patto con cui si esclude o si limita la responsabilità [1229] del locatore per i vizi della cosa non ha effetto, se il locatore li ha in mala fede taciuti al conduttore, oppure se i vizi sono tali da rendere impossibile il godimento della cosa [1490, 1580, 1581].”

[23] L’art. 2087 c.c. stabilisce che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro [Cost. 37, 41]”.

[24] In tema di contratto di trasporto l’art. 1681 c.c. stabilisce che: “Salva la responsabilità per il ritardo e per l’inadempimento nell’esecuzione del trasporto, il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio e della perdita o dell’avaria delle cose che il viaggiatore porta con sé, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno [2050, 2951].

Sono nulle le clausole che limitano la responsabilità del vettore per i sinistri che colpiscono il viaggiatore.

Le norme di questo articolo si osservano anche nei contratti di trasporto gratuito [c. nav. 414, 415].”

[25] Alfonso Amatucci, in incontro di studio del 28 aprile 2010 avente ad oggetto “I contratti con effetti protettivi (le pronunce delle sezioni unite sul danno non patrimoniale e la possibile ulteriore estensione della tutela risarcitoria)”, p. 6 ss..

[26] Deve intendersi per consumatore ai sensi dell’art. 3 c. 1 del Codice del consumo “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o commerciale eventualmente svolta” in contrapposizione al professionista che viene definito come “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale”.

[27] 1. Il contratto di affiliazione commerciale deve essere redatto per iscritto a pena di nullità.

  1. Per la costituzione di una rete di affiliazione commerciale l’affiliante deve aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale.
  2. Qualora il contratto sia a tempo determinato, l’affiliante dovrà comunque garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni. E’ fatta salva l’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempienza di una delle parti.
  3. Il contratto deve inoltre espressamente indicare:
  4. a) l’ammontare degli investimenti e delle eventuali spese di ingresso che l’affiliato deve sostenere prima dell’inizio dell’attività;
  5. b) le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato;
  6. c) l’ambito di eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante;
  7. d) la specifica del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato;
  8. e) le eventuali modalità di riconoscimento dell’apporto di know-how da parte dell’affiliato; f) le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione; g) le condizioni di rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto stesso.

[28] Valerio Sangiovanni, Il ruolo dell’informazione nel contratto di franchising in Giust. civ., fasc.5, 2011, pag. 245.

[29] La nuova formulazione della norma si richiama altresì agli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile.

[30] La norma dà un’indicazione indicativa delle circostanze di cui tenere conto menzionando il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all’importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero.

[31] Condotta da considerarsi anch’essa da considerarsi, a fortiori, nulla.

[32] Cass. Sez. 3, Sentenza 05 marzo 2009 n. 5348.

[33] Polidori, Nullità di protezione e interesse pubblico, in Rassegna di diritto civile – 2009; Id., Disciplina della nullità e interessi protetti, cit., passim, spec. p. 25 ss. All’esigenza di tutelare il contraente più debole e alla connessa finalità di garantire l’efficienza di un mercato aperto e in libera concorrenza fanno riferimento anche Scalisi, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Dir. priv. e Europa, 2001, 2, p. 498 s.; Bonfiglio, La rilevabilità d’ufficio della nullità di protezione, in Riv. dir. priv., 2004, pp. 870 s., 892, 901; Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, p. 14 s. Cfr. anche Putti, L’invalidità nei contratti del consumatore, cit., p. 477 s.

[34] La duplice esigenza di tutela della concorrenza e del consumatore costituisce pure il leit-motiv della relazione di accompagnamento alla proposta di direttiva Ce sui diritti dei consumatori che « intende contribuire al corretto funzionamento del mercato interno e al conseguimento di un livello elevato di tutela dei consumatori mediante l’armonizzazione di taluni aspetti delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di contratti tra consumatori e commercianti » (art. 1).

[35] In base al dettato dell’art. 36 del Codice del Consumo rubricato “Nullità di protezione” 1. “Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto.
2. Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di:
a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista;

  1. b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
  2. c) prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.
  3. La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
  4. Il venditore ha diritto di regresso nei confronti del fornitore per i danni che ha subito in conseguenza della declaratoria di nullità delle clausole dichiarate abusive.
  5. E’ nulla ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di una legislazione di un Paese extracomunitario, abbia l’effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dal presente titolo, laddove il contratto presenti un collegamento più stretto con il territorio di uno Stato membro dell’Unione europea”.

[36] Cass. Sez. Un, Sentenza, 12 dicembre 2014, n. 26242 in Riv. 633502.

[37] V. fra le tante Cass., Sez. L, Sentenza 07 maggio 2013 n. 10568 del in Riv. 626199.

[38] V. Antonio Tullio, La subfornitura industriale: considerazioni in merito all’ambito di applicazione della legge n. 192 del 1998 e alla forma del contratto di subfornitura in Giust. civ., fasc.6, 1999, pag. 251.

[39] Tale è l’impostazione di: G. De Nova, in G. De Nova-A. Chiesa-F. Delfini-D. Maffeis-A. Salvadè, La subfornitura, L. 18 giugno 1998 n. 192, Milano 1998, per il quale al singolo rapporto di subfornitura sarà applicabile tanto la disciplina dettata per la subfornitura quanto quella dettata per il tipo legale cui il singolo contratto sia ascrivibile. Nel medesimo ordine di idee in merito alla non configurabilità di un nuovo tipo contrattuale cfr.: G. Gioia, La subfornitura nelle attività produttive, Il commento, in Corr. giur. 1998, 883, per la quale la legge in esame, più che disciplinare un singolo contratto, regola un segmento del complesso procedimento industriale, caratterizzato da dipendenza tecnica ed economica del subfornitore dall’impresa committente; F. Bortolotti, I contratti di subfornitura, La nuova legge sulla subfornitura nei rapporti interni ed internazionali, Padova 1999, 44-46, U. Ruffolo, Il contratto di subfornitura nelle attività produttive. Le nuove regole della legge 18 giugno 1998, n. 192: “correzione” della autonomia contrattuale a tutela del subfornitore come professionista debole?, in Responsabilità comunicazione e impresa, 3, 1998, 403; A. Mora, Subfornitura e dipendenza economica, in I contratti 1999, 95; A. Frignani, Disciplina della subfornitura nella legge n. 192/98: problemi di diritto sostanziale, ivi, 191; M. Granieri, Subfornitura industriale: riflessi in ambito distributivo e concorrenziale, in Disciplina del commercio 1999, 64-66.

[40] Delli Priscoli, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giur. merito, 2006, 2153 ss.;De Nova, La nuova legge sul franchising, in Contratti, 2004

[41] Cass., Sez. Un., 25 novembre 2011, n. 24906.

[42] Cfr. fra i tanti: Alla ricerca della “regulation” economicamente perfetta. Dalla teoria all’analisi dell’impatto della regolamentazione di Raffaele Perna in  Mercato Concorrenza Regole ed. Il Mulino, Articolo 1/2003, aprile pp. 49-84; Sulla Costituzione Economica. Contributo per una teoria degli effetti costituzionale dell’economia, di Giampiero di Plinio pubblicato sulla Rivista “Il Risparmio”, n, 1/2008.

[43] V. in senso conforme Cass., Sez 3 civ., 25, settembre, 2014, n.18186.

[44] Cass., Sez. Un., 25 novembre 2011, n. 24906.

[45] Cass., Sez 3 civ., 25, settembre, 2014, n.18186.

[46] Inoltre e più in generale, questa Corte ha già ritenuto che l’abuso di un diritto, inteso come esercizio dello stesso senza rispettare la buona fede e la correttezza, ma generando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, esponga l’abusante all’inefficacia dell’atto ed al risarcimento del danno, ma rimanendo pur sempre la controversia nell’ambito della materia contrattuale, attenendo al momento funzionale del contratto, sia pure espletato in maniera illegittima(Cass. 18.9.2009, n. 20106).”

[47] In senso conforme V. sopra citato Antonio Tullio.

[48] V. sopra citato A. Tullio secondo cui la funzione della disciplina in materia di subfornitura è quella di “riequilibrare le distorsioni prodotte dal “libero” mercato nei rapporti di collaborazione produttiva “verticale” tra grandi imprese committenti e piccole-medie imprese fornitrici”.